Penso qui agli episodi che, anche di recente, hanno occupato le pagine della cronaca in Veneto su giovani che non sono riusciti a gridare la loro sofferenza e a chiedere aiuto. Per cui, invece di ammettere che erano in difficoltà con gli esami universitari, si sono sentiti costretti a togliersi la vita. Vite spezzate, e distrutte. Anche ai loro cari, con i quali la nostra vicinanza deve essere totale. Va rispettato ora il tempo del dolore, senza abbandonarsi però al fato e al destino nella ricerca dei perchè. Che toccano tutti perché riguardano tutti.
Dopo e dietro il doveroso silenzio stanno le tante domande, per l’inestricabilità dei cuori bruciati, e delle ragioni intime delle scelte fatte. Per la responsabilità, poi, come ci si dice a volte retoricamente, di una condivisione che aiuti tutti a prevenirne altre di tragedie. Ma perché sia vera prevenzione ci vuole capacità di ascolto, anzitutto, e quindi di lettura dei segnali indiretti, dei non detti, per poi, con garbo e rispetto, aprirsi tentando di cogliere sempre il buono in ciascuno. Solo allora sarà possibile il dialogo, col conseguente auto-aiuto, cioè la disponibilità ad esserci, anche semplicemente ad esserci. Per essere pronti in caso di fragilità.
Ma è facile parlarne, difficile però per tutti noi andare nel concreto, cioè praticarla questa vicinanza. E qui il nesso tra essere ed apparire, tra criticità e aspettative negate, tra fragilità e ansie da prestazione, tra alti e bassi della giovinezza e mito dei risultati assolutizzati, con i titoli di studio da esibire come trofei: tutto diventa meno sicuro, meno scontato, meno ovvio, se noi andiamo a leggere in controluce il valore degli stessi percorsi scolastici ed universitari. Perché non sono i titoli di studio, se assolutizzati, a valere, ma è la vita stessa ad essere il vero metro di valore, che non può essere riassunto in un pezzo di carta o in una valutazione, ridotti a performance, a prestazione fine a se stessa. Perché è la vita stessa, lo ripeto, il criterio e la ragion d’essere. Ma che il nostro mondo, troppe volte ridotto a mero apparire, con strumenti come le valutazioni e i relativi riscontri formali che vengono da mezzi assurti a fini da esibire come trofei; che il nostro mondo, si diceva, fa fatica troppe volte a darsi una ragione della relatività, che non è relativismo, cioè indifferentismo, della sola logica dei risultati. Il fine della vita, in poche parole, è la vita stessa, non una sua tappa più o meno formalizzata. Perché è la vita, con Totò, che ci insegna che “nessuno nasce imparato”, e che i percorsi di studio devono poi essere calati nel fluire delle esperienze ed opportunità. Dovremmo ripeterci più spesso queste cose, perché il dialogo ci sia comunque. E nel dialogo è bene che sia sincero, senza aspettative e proiezione di desideri fuori portata. Quindi anche con i limiti e le fragilità che abbiamo tutti.
Questo vale a scuola e vale all’università, dove il merito non va ridotto a puro risultato, altra faccia del darwinismo sociale, ma la stessa cosa la troviamo anche nel mondo del lavoro e nelle tante relazioni, dove si capisce solo col tempo che è la quotidiana ricerca di equilibrio tra processi e risultati a garantire comunque il vero valore aggiunto. Perché sono poi sempre le persone, con tutto il loro essere, a fare la differenza. Risorse umane, si usa troppo spesso dire, mentre invece le persone sono anzitutto persone, non risorse, cioè usabili solo strumentalmente. Tutti, che lo si voglia o meno, ognuno per la propria parte, siamo invece co-autori di un processo che ha sì delle finalità e degli obiettivi, anche certificabili formalmente, ma sempre relativi alle diverse variabili che concorrono a risultati che vanno con-divisi, cioè divisi assieme.
Vanno perciò ridimensionate le classifiche prestazionali, come Eduscopio per le scuole, o certi giochi di società per gli altri contesti sociali. Allora, pur apprezzando gli sforzi ed il valore delle fatiche individuali, così sono da rispettare ed apprezzare anche quelle fragilità che rischiano troppe volte di rendere classista, sotto nuova forma, la problematicità sociale ed esistenziale. Perché le variabili sono tante, e quasi sempre non le conosciamo, nei percorsi di vita personali. Così la competizione e la concorrenza, ce lo possiamo dire con franchezza, possono essere valori positivi, e lo sono per gli aspetti dinamici del sapere e delle professionalità, ma al fondo conta e deve contare sempre la reciproca disponibilità alla cooperazione, al gioco di squadra, allo sforzo in comune. È l’imprescindibile sfondo relazionale del nostro vivere, oltre i miti coltivati nelle varie fasi storiche. Oggi strutturalmente individualistici. Anche su questo versante, nessuno si salva da solo, perché nessuno, per se stesso, è artefice fino in fondo del proprio destino.
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