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Sindrome di burnout: i docenti possono combatterla cooperando e collaborando [INTERVISTA]

Parlando con i docenti è sempre più frequente ascoltare racconti di ansia e demotivazione legati certamente alla scarsa considerazione sociale di cui gli insegnanti godono, ma non solo.
Ci sono anche ragioni più profonde.
Ne parliamo con Monica Barisone, psicologa e formatrice di lunga esperienza che da decenni lavora a contatto di studenti, insegnanti e famiglie.

Ansia, stanchezza mentale, depressione sono “mali” tipici del mestiere di insegnante? Di cosa si tratta di preciso?

Per la verità si tratta di disturbi diffusi soprattutto in alcune categorie che si possono far rientrare nella cosiddetta sindrome di burn out.
Si tratta di una forma di esaurimento o surriscaldamento, legato ad una condizione di stress lavorativo protratto e intenso, che determina un logorio psicofisico ed emotivo associato anche a demotivazione, trascuratezza degli affetti e delle relazioni sociali, difficoltà di concentrazione, irritabilità, senso di colpa, mancanza di iniziativa, assenteismo.

Ma il burn out è solo un disturbo mentale?

Assolutamente no, anzi coinvolge il soggetto a livello fisico e può manifestarsi con emicrania, sintomi respiratori, insonnia, inappetenza, disturbi intestinali, senso di debolezza.

Quando si è iniziato a parlare di burn out?

E’ un termine coniato nel 1974 da Freudenberger per indicare una sindrome caratterizzata da un particolare tipo di reazione allo stress; sperimentata dagli operatori sanitari e poi estesa ad altre categorie di “helping profession”, fra cui le professioni sanitarie: medici, psicologi, infermieri, operatori sociosanitari; venne studiato soprattutto negli anni ‘80 e ‘90. Poi si capì che riguardava anche tutto il mondo scolastico!

Come si cura ?

Tra le risorse per fronteggiarlo allora si enumerava soprattutto la formazione e infatti proprio in questi mesi stanno ripartendo mille progetti nelle aziende e non solo. La risorsa principe è sempre stata in realtà far gruppo o squadra, come si diceva negli anni ’90. In sostanza si proponeva di reggere insieme le fatiche, scambiare strategie, creare soluzioni e sviluppare le potenzialità diffuse… ‘con-dividere’ cioè possedere insieme, partecipare insieme, offrire del proprio ad altri.

Cioè vuol dire che collaborare e cooperare può aiutare anche a “stare meglio” sotto l’aspetto psico-fisico?

Certo, si tratta di azioni e competenze che sicuramente possono giocare un ruolo fondamentale in qualsiasi campo lavorativo; eppure, anche nella pratica didattica risulta difficile, talvolta, condividere con altri una propria esperienza o un proprio modo di fare. Entrano in gioco le nostre competenze sociali: saper avviare, sostenere e gestire un’interazione di coppia o di gruppo, spontaneamente e con continuità. Ciò che in realtà proponiamo e valutiamo anche nel lavoro con bambini e ragazzi!

In altre parole è possibile “imparare” a combattere il burn out.

Direi proprio di sì: le competenze sociali sono certamente “naturali”, legate cioè alla appartenenza alla nostra specie, ma sono  anche oggetto di apprendimento, dunque, potenziabili attraverso attività che riguardano la percezione di sé, l’ascolto, la rappresentazione sociale, il gruppo.
Questo per tendere a diventare un po’ come musicisti jazz che – come scriveva il filosofo Donald Schön 40 anni fa – “ascoltandosi reciprocamente e ascoltando sé stessi, sentono in che direzione sta andando la musica e di conseguenza adattano il loro modo di suonare…”, cercano cioè di armonizzare la propria prestazione con gli altri, al fine di contribuire tutti al meglio all’opera che stanno producendo.

C’è molto ottimismo in quello che lei dice…

Direi che c’è molto realismo: sono considerazioni che derivano da decenni di lavoro durante i quali ho imparato che ascolto a racconto viaggiano sempre insieme, che quando si sbaglia strada si può tornare indietro e ripartire, che è meglio se si fa a turno nel prendere la posizione di guida, che quando si brancola nel buio, ma si è in tanti, ad un certo punto arriva sempre qualcuno con un po’ di luce, con un sorriso, con una speranza, un’idea.

E sono considerazione che lei da qualche tempo sta anche mettendo nero su bianco…

Sì, da alcuni mesi curo la rubrica “Stare nella relazione per imparare e per insegnare” nel sito di una piccola associazione professionale che opera in provincia di Torino.

Redazione

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