A La Tecnica della Scuola, interviene il segretario generale della Flc-CGIL, Francesco Sinopoli.
La questione degli organici per l’anno scolastico 2018/2019 è un problema che riguarda solo il personale scolastico e la mobilità, oppure è un problema che coinvolge tutto il sistema scolastico nazionale?
Per far sì che nessuno resti indietro bisogna aumentare il tempo scuola e costruire le condizioni affinché in tutto il territorio nazionale siano garantite le stesse opportunità e gli stessi diritti. È indispensabile investire sulla scuola dell’infanzia, sull’educazione degli adulti, sul personale ATA, su tutti i principali strumenti che consentono di realizzare processi di inclusione e integrazione. E per farlo servono innanzitutto organici adeguati. La situazione attuale va invece nella direzione opposta perché si taglia invece di investire. Inaccettabile soprattutto che vengano tagliati posti al sud. Non solo non si aumenta il tempo scuola ma si mette a rischio la continuità didattica e nello stesso tempo si riduce la possibilità per molti docenti di avvicinarsi a casa. Lo abbiamo detto tante volte e lo ribadiamo: per combattere la dispersione scolastica e gli abbandoni è indispensabile la realizzazione del tempo pieno nelle regioni del sud e la generalizzazione della scuola dell’infanzia. Serve quindi un investimento straordinario da subito che contrasti lo spopolamento delle regioni del mezzogiorno e delle aree interne. Senza organici adeguati si pongono in un’assurda competizione territorio con territorio e ordine di scuola con ordine di scuola, per dividere risorse assolutamente inadeguate. Senza un incremento degli organici al nord si mettono a rischio le funzioni fondamentali della scuola e al sud si asseconda lo spopolamento del mezzogiorno e delle aree interne e si indeboliscono ancora di più territori resi ancora più fragili dalla crisi economica. Serve un progetto nazionale per la scuola italiana che ne rilanci la sua missione costituzionale e che parta proprio da qui.
La FLC è reduce dall’assemblea nazionale “La scuola che verrà” nella quale avete discusso del futuro dell’istruzione pubblica partendo da un bilancio amaro degli ultimi anni. Sinopoli ci parli dei punti chiave che avete affrontato nella vostra discussione.
Abbiamo rilanciato quelle che dal nostro punto di vista sono le priorità per la scuola pubblica partendo da un bilancio di questi lunghi anni di politiche sbagliate. Nell’anno del cinquantenario del 1968 è d’obbligo una riflessione. Ci fu in quel periodo una spinta fortissima per cambiare la scuola contestando la sua natura classista. Si avviò un processo riformatore importante dall’introduzione della scuola dell’infanzia ai decreti delegati. Da quell’epoca di riforme che volevano rendere le persone più uguali e capaci di vivere una vita degna di essere vissuta siamo poi invece passati alle riforme della scuola per adeguarla al mondo così com’è. Le politiche degli ultimi 15 anni hanno consolidato l’ideologia neoliberale nella quale merito e mercato diventano sinonimi in una ricetta condita da tagli: dal maestro unico, al taglio delle ore di laboratorio, dal blocco degli organici ata, alla legge 107 che chiude il cerchio. Oggi, di fronte ad una regressione alfabetica di ampie fasce della popolazione, al persistere di elevatissimi tassi di dispersione e abbandono, alla difficoltà non risolta di tutte le transizioni che colpiscono i più deboli, alla priorità assoluta di costruire inclusione, integrazione e nuova cittadinanza dobbiamo tornare a porci una domanda di fondo, la stessa che si poneva ormai cinquanta anni fa la pedagogia democratica, sulla spinta delle straordinarie e profetiche provocazioni di Don Milani : se il sapere è solo quello dei libri, “chi ha tanti libri a casa sarà sempre più avanti di chi i libri non li ha mai visti”. Anche oggi chi ha tanti libri in casa è quello che potrà sempre scegliere la scuola migliore sulla base delle informazioni che riceve dalla “rendicontazione” dei risultati dei test e delle diverse forme di valutazione. Serve ancora di più comprendere che il sapere è il presupposto per la costruzione di una cittadinanza democratica, per realizzare l’obiettivo di una società aperta e inclusiva capace di accrescere le capacità di ciascuno per dirla con Amartya Sen. Lo studio, la scuola, l’università sono parte del riscatto sociale, sono strumenti indispensabili per la comprensione del mondo, di socializzazione democratica, perché educano al sapere critico. La scuola non deve educare il “capitale umano”, non è un luogo di addestramento al lavoro così com’è; non può sottrarsi alla missione di costruire esperienze di apprendimento per la vita conoscitiva e per la libera intelligenza degli studenti; deve impegnarsi a superare le diseguaglianze e non a moltiplicarle.
Disuguaglianze come ci sono innanzitutto tra Sud e Nord?
Certo ma anche tra centro e periferia delle grandi città e i divari crescono anche nel nord. In sostanza per far sì che nessuno resti indietro bisogna innanzitutto costruire le condizioni affinché in tutto il territorio nazionale siano garantite le stesse opportunità e gli stessi diritti. Infrastrutture, organici adeguati alla realizzazione del tempo pieno nelle regioni del sud, generalizzazione della scuola dell’infanzia e gratuità effettiva della scuola sono la base. Ma non ci siamo fermati alle affermazioni di principio pur importanti, abbiamo quantificato queste necessità avanzando richieste precise. Proponiamo che in un sessennio (2019-2024) si investa per la scuola quanto è necessario per colmare il differenziale con la media degli investimenti dei Paesi Ocse: circa 8.100 milioni di euro per una edilizia non solo di sicurezza ma che veda nelle nostre scuole un laboratorio di didattica nuova e avanzata e di “civic center” per i quartieri; circa 8.000 mln di euro per la valorizzazione del personale docente e ata; circa 4.500 mln di euro per la generalizzazione della scuola dell’infanzia, l’obbligo scolastico a 18 anni, l’estensione, laddove richiesto dalle famiglie, del tempo pieno e prolungato, la stabilizzazione degli organici di Docenti di tutti gli ordini di scuola, dei Dirigenti Scolastici, dei DSGA, di tutto il personale ata e anche degli Ispettori tecnici, la revisione dei parametri delle dimensioni delle scuole che per noi deve adeguarsi a quanto indicato dal Senato della Repubblica nel 2012 (900 alunni di media).
Quale riforma pensate abbia bisogno la scuola pubblica italiana?
Bisogna rilanciare il grande tema dell’obbligo a 18 anni e di un ripensamento dei cicli che parta da una sperimentazione sul ciclo unico di base. Completamente fuori strada la scelta della sperimentazione quadriennale. Grande attenzione alla scuola dell’infanzia di cui ricorre il cinquantenario, un modello pedagogico che il mondo ci invidia e allo stesso tempo la scuola più ignorata sotto il profilo degli investimenti. Crediamo sia maturo il tempo di discutere dell’obbligatorietà del segmento 3-6 a partire dall’ultimo annotraguardando così ad una revisione dei cicli che, non sottraendo nulla all’attuale periodo di permanenza a scuola, preveda per i nostri giovani, al pari dei loro coetanei europei, un ingresso anticipato di un anno all’Università.
È tempo di fare bilanci, qual è la vostra valutazione sull’autonomia scolastica a venti anni dalla sua introduzione?
Serve un bilancio dell’autonomia di ciò che doveva essere e di ciò che è diventata. Autonomia non può voler dire lasciare la scuola sola ad affrontare i problemi di un territorio. O peggio scaricare sulla scuola funzioni che non può e non deve assolvere. Per altro l’autonomia organizzativa e didattica, depotenziata dalla lunga stagione di tagli di organici e di ore ai curricoli con le leggi di risparmio della riforma Gelmini, i dimensionamenti, oggi vive una crisi profonda. Soprattutto l’autonomia non doveva essere un processo burocratico ma un processo democratico e partecipato di sperimentazione e ricerca guardando al territorio, una comunità educante come abbiamo scritto nel nostro contratto. Bisogna ricostruire una dimensione collegiale che oggi esiste solo come fase necessaria di una gestione burocratica della scuola.
Come giudica il sistema nazionale di valutazione della scuola italiana?
Così come serve ripensare le finalità – innanzitutto- del sistema nazionale di valutazione. La valutazione non è un processo neutro, ha delle finalità politiche e in alcuni casi anche apertamente ideologiche: quella per la quale le istituzioni scolastiche per migliorare devono essere progressivamente immerse in un meccanismo di pseudo mercato che spingerebbe le famiglie (i consumatori) a scegliere l’offerta formativa migliore portando ad una competizione virtuosa tra strutture.Da qui la centralità delle informazioni che le famiglie possono ricevere per effettuare la scelta. Occorre dire con chiarezza che siamo contrari a questo modello di valutazione e certificazione. La scuola italiana è oggetto da anni, e la 107 ha accelerato tale processo, di una vera e propria ossessione quantitativa e classificatoria. I processi valutativi messi in campo quotidianamente dalle scuole e correlati con storie, percorsi, contesti sono di fatto pesantemente messi in discussione dall’uso pervasivo delle prove standardizzate, da un lato, utilizzando il paravento della trasparenza e della qualità del servizio, e, dall’altro, accusando gli insegnanti di inaffidabilità se non di vera e propria disonestà intellettuale; se a questi aspetti, poi, si uniscono l’obbligo di somministrare le prove (seppure computer based) e la trasformazione delle prove in requisito inderogabile per l’ammissione all’esame, il mix appare esplosivo e foriero di conflittualità pesantissime. La scuola migliore si è addestrata a rispondere alle domande silenziose, a quelle dei genitori che non hanno strumenti culturali e la forza economica per orientare le scelte dei propri figli e non scelgono le scuole in base al rav ma trovano la scuola nel loro quartiere quando la trovano. Hanno cioè lavorato su una idea di cooperazione e non hanno incoraggiato il familismo amorale e proprietario che sta alla base dell’idea mercatista. Il punto non è quello di consentire una scelta informata ma come si fa ripartire anche nel nostro paese quella mobilità sociale che da tempo è in crisi, come si costruiscono le condizioni. Per noi la responsabilità in tema di valutazione degli apprendimenti, di cura della documentazione, di scelta dei relativi strumenti, deve essere in capo ai docenti; le rilevazioni e le prove nazionali standardizzate devono essere effettuate a campione; occorre cancellare le norme relative all’inserimento dei risultati delle rilevazioni/test nella certificazione delle competenze; sulla base delle esperienze internazionali appare necessaria una moratoria sulla somministrazione dei test computer based.
Sulla scuola e il lavoro c’è molto dibattito, a partire dall’alternanza della 107 molto contestata non solo dagli studenti.
L’educazione in un paese democratico, ha come fine principale quello di costruire persone autonome, responsabili, dotate di senso critico, aperte alla relazione e alla collaborazione con propri simili. Come ho detto la pedagogia militante degli anni ’60 voleva una scuola per cambiare il mondo: per farlo serve cambiare la scuola ma anche cambiare il lavoro. Non accettare il lavoro che c’è. Bisogna pensare semmai al lavoro per come vogliamo che sia. Perché l’occupabilità diventi occupazione e non resti permanente disponibilità allo sfruttamento e alla precarietà è necessario modificare la nostra specializzazione produttiva e puntare non su profili professionali stretti ma su saperi e competenze interdisciplinari. La robotica è la scienza interdisciplinare per eccellenza ed è quella che innerva tutti i maggiori processi di trasformazione del presente. Al contrario la retorica dell’occupabilità, totalmente fuorviante asseconda gli interessi di brevissimo periodo del sistema produttivo. L’alternanza della 107 va in questa direzione perciò deve essere radicalmente modificata a partire dalla cancellazione della precisa quantificazione delle ore.
Ma soprattutto bisogna tornare a ragionare sui contenuti del sapere
La questione del vocabolario scarso nelle menti delle giovani generazioni è divenuto un problema planetario, e finalmente ci si accorge che solo potenziando lettura e lingua (grammatica, sintassi, vocabolario) si possiede il mondo (con le parole profetiche di don Milani). È vero che le tecnologie della comunicazione hanno trasformato il modo in cui si legge e si scrive, o ci si scambia informazioni. Ma proprio per questo serve una scuola e un sistema universitario che siano finalmente in grado di insegnare che si può non essere “schiavi”. Già nel 1975 Tullio De Mauro insisteva sulla linguistica democratica quale artefice della libertà di pensiero critico. L’attenzione alla lingua e alla sua comprensione è decisiva anche nell’era della comunicazione digitale integrata. Non basta combattere l’analfabetismo digitale perché – una frequente attenzione di facebook ce lo rende evidente – esistono anche i digitali analfabeti e sono tanti. Per realizzare questi obiettivi serve quell’ investimento straordinario di cui abbiamo parlato sopra
La Flc Cgil è impegnata in un’attività di comunicazione e consultazione, attraverso numerose assemblee sindacali nelle varie scuole del territorio nazionale, per fare conoscere al personale scolastico i punti della pre-intesa sul nuovo contratto collettivo nazionale della scuola. Come procede questa consultazione con gli iscritti e tutti i lavoratori della scuola sul rinnovo del contratto?
Diciamo subito che per il nostro statuto la consultazione è indispensabile per la firma definitiva:in mancanza di una consultazione referendaria sulla quale non c’è stato l’accordo delle altre sigle firmatarie, la FLC Cgil deve attendere dai suoi iscritti, che stanno rispondendo in modo assai positivo, il via libero definitivo. Abbiamo deciso di far votare tutti, in questo caso anche chi non è iscritto. Soprattutto abbiamo deciso di organizzare una campagna di assemblee capillare cercando di confrontarci con il maggior numero di colleghe e colleghi possibile. Non basta certo un tweet o un post su facebook per discutere un contratto. Bisogna riabituarsi ad una democrazia del confronto e dello scontro se serve nelle assemblee. Fino ad oggi la consultazione registra un consenso ampio. Non mancano, come è giusto che sia, le critiche, ma l’impressione è che si sia colto il senso di fondo di questo rinnovo: un contratto di ripartenza. E poi che la legge 107, la legge più odiata di tutti i tempi da quando esiste la scuola italiana, è stata fatta saltare nei suoi cardini fondamentali: bonus che ritorna in contrattazione, chiamata diretta ridotta a un residuo archeologico perché la titolarità di scuola è stata ripristinata. E non con una norma contrattuale derivata quale è il CCNI ma nello stesso CCNL che, per la sua collocazione nella gerarchia delle fonti contrattuali, mette la parola fine ad ogni discussione.
Quali sono i punti del CCNL 2016-2018 del comparto della conoscenza che rivendica con più orgoglio?
Sicuramente il valore della collegialità è stato ripristinato attraverso l’affermazione della comunità educante nella quale tutti devono avere spazio e cittadinanza. L’inserimento del personale ata nelle commissioni per la sicurezza e l’inclusione è un fatto di grande importanza non solo per la dignità professionale di questo personale ma per la scuola nel suo complesso. Certamente, nonostante i molti punti acquisitivi, nonostante la riformulazione delle relazioni sindacali, restano diversi i punti da conquistare in futuro, in linea con le nostre rivendicazioni. Abbiamo ottenuto di riaprire la contrattazione, abbiamo messo in sicurezza un primo aumento salariale e riportato nel contratto alcune delle risorse stanziate sotto forma di bonus o di elargizione. Questo contratto rappresenta per noi l’inizio di una stagione contrattuale nuova, il punto di partenza che ci vede già da subito al lavoro dato che dobbiamo dare seguito agli impegni dell’art.29 e dell’art.34, ovvero le sequenze contrattuali sulle sanzioni disciplinari dei docenti e sulla revisione dei profili del personale ATA. Voglio aggiungere ancora una considerazione sul Contratto sottoscritto in via di Ipotesi il 9 febbraio e che è al vaglio degli organi di controllo: i Docenti, gli ATA, gli educatori, i Dirigenti tornano a riprendersi uno spazio di movimento e di manovra sulle proprie condizioni di lavoro da cui erano stati estromessi. Si chiude una stagione in cui la funzione normativa dei Contratti nazionali in materia di lavoro era stata fortemente colpita se non annullata. Le norme Brunetta, la 107, la politica dei bonus avevano perseguito la politica della cosiddetta disintermediazione che altro non voleva dire “fuori i rappresentanti dei lavoratori dalle relazioni di lavoro perché tale questione è affare esclusivo dei governi e dei partiti di maggioranza”. Ebbene, il Contratto lancia questo messaggio: abbiamo ripristinato il campo di gioco e i lavoratori sono tornati protagonisti; vedremo dai comportamenti delle forze politiche se intendono rispettare davvero i lavoratori facendo i contratti oppure no.
Dopo le elezioni del 4 marzo 2018 la situazione politica italiana propone uno scenario inedito per quanto ancora incerto nella sua definizione. Unico vero sconfitto sembra essere stato il Partito Democratico. Secondo lei quali sono stati i motivi principali di questa sonora punizione che il PD ha avuto dalle urne?
È evidente che il voto del 4 marzo ha bocciato la politica del Pd sulla scuola e sul lavoro ma ha anche rilevato la difficoltà di una sinistra alternativa ad essere considerata davvero in grado di raccogliere le istanze di cambiamento. Il sindacato è stato un soggetto politico fondamentale per contrastare quelle stesse riforme oggi bocciate nelle urne. Questo non significa che vada tutto bene. La crisi di rappresentanza dei partiti del ‘900 parla anche a noi, a come siamo organizzati a come esprimiamo le istanze di questo tempo. Per me vale ancora la lezione di Trentin che ci insegnava come essere pienamente soggetto politico senza perdere niente della nostra autonomia che è di valori e di progetto.
Il Movimento 5 Stelle con il suo 32,7% risulta il primo partito alla Camera e al Senato, ha fatto molte promesse elettorali. Potrebbe essere un interlocutore politico credibile per modificare leggi come la Brunetta, la Buona scuola e il Jobs Act?
In realtà la scuola in questa campagna elettorale è stata solo nominata. Molti hanno detto di voler cambiare la 107 e siamo contenti. Se ci avessero supportato anche nella raccolta delle firme per i 4 referendum che avevamo proposto l’avremmo già ribaltata. Per una parte abbiamo fatto da soli con il rinnovo del contratto, ma tanto ancora resta da fare, come ho detto. Nel nuovo scenario politico non dobbiamo escludere nessuno strumento per riaprire una discussione pubblica sulla scuola, sulle sue priorità, su una idea costituzionale e attuale. Sfidare le nuove maggioranze sul merito, incalzarle sui programmi. Vale sulla scuola come sul jobsact e le pensioni.
Già da aprile 2018 ci sarà da predisporre, da parte del nuovo Governo che verrà, il Documento di economia e finanza per l’anno 2019. Terminata la campagna elettorale con le relative promesse, pensa che i partiti politici che costituiranno la maggioranza di Governo faranno attenzione alle politiche sociali investendo risorse economiche per il Contratto Scuola, Università, Ricerca e Afam (2019-2021) in modo da recuperare il potere d’acquisto preso in questi anni?
Questa, ripetiamo, sarà una prima verifica delle promesse elettorali. Questo rinnovo contrattuale non ha recuperato le perdite salariali di un decennio senza contratto – e del resto la Corte Costituzionale e il giudice ordinario che anche su nostra iniziativa hanno costretto il Governo a rinnovare i contratti del Pubblico Impiego ha esplicitamente escluso l’obbligo per il Governo di stanziare le risorse corrispondenti a quanto perduto per mancanza del rinnovo – ma parliamo di un contratto che scade appunto il 31 dicembre 2018. Già nella prossima legge di stabilità quindi dovranno essere postate le risorse per il rinnovo 2019-2021. Noi saremo pronti con le piattaforme contrattuali. Starà al governo che avremo rispettare le promesse. Faccio notare solo che ridurre le tasse alle imprese e investire sul lavoro pubblico a partire dai salari nella scuola e allo stesso tempo costruire strumenti universali di sostegno al reddito sui quali saremmo d’accordo (posto che si tratti di questo) non è semplice. Comporta fare delle scelte. Il piano Cottarelli tanto decantato era un piano demagogico di dismissione di enti che non portavano nulla sul piano delle risorse – basta pensare al disastro di Renzi con le province e tagli veri invece alla spesa sociale. Era la stagione di Monti e del dimensionamento del blocco agli organici ata che ancora paghiamo. Stiamo attenti a non prendere cantonate. Monetizzare i servizi pubblici è una ricetta già sperimentata nell’Inghilterra thatcheriana e blairiana. Non rende le società più giuste ma costruisce mercati differenziati dove alla fine ai poveri resta un pubblico indebolito per cui essi devono rivolgersi ancora di più al privato a proprie spese mentre per i ricchi non cambia nulla, anzi riduciamo loro le tasse con la flat-tax.
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