Con riferimento alla lettera aperta inviata alla neo ministra Fedeli da numerosi insegnanti di sostegno, che è stata recentemente riportata in un articolo del Corriere della sera del 31 Dicembre 2016 dal titolo “Sostegno ai disabili, rivolta dei docenti contro la riforma in arrivo”, mi permetto di esternare ai nostri lettori alcune mie brevi considerazioni.
Innanzitutto, voglio subito precisare che tutte le notizie ed informazioni finora fornite sulla riforma del sostegno ai disabili a scuola, una delle deleghe al governo previste dalla legge 107, sono solo indiscrezioni, anticipazioni, dichiarazioni. Eppure tali notizie sono state ugualmente sufficienti ad alimentare già forti malumori e tensioni (forse per ora un po’ troppo premature ed ingiustificate) da parte di circa 40 associazioni e decine di sigle di docenti per il sostegno, riunitesi nel gruppo dei cosiddetti “partigiani della scuola pubblica”.
Personalmente, non condivido i contenuti della loro missiva al Ministro, ritenendo invece assolutamente “indifferibile” la riforma dell’attuale sistema italiano dell’inclusione scolastica.
A mio modesto avviso, infatti, la riflessione sull’imminente delega sul sostegno non può essere animata dalla voglia di “trincerarsi” nella tutela ad ogni costo dell’esistente o in rimpianti di un passato che poteva essere e che non è stato, come mi pare stiano facendo gli autori della sopraccitata “protesta”. Al contrario, essa deve essere ispirata dalla convinzione che, solo guardando avanti, anche se con “realismo”, si riuscirà finalmente a garantire il migliore futuro possibile all’inclusione scolastica degli alunni/studenti disabili italiani.
Ed ora veniamo nel dettaglio alle eventuali criticità che, secondo i “partigiani della scuola pubblica, potrebbero scaturire dalla riforma in arrivo.
Uno dei punti “deboli” della riforma, secondo la loro opinione, sarebbe il cosiddetto «profilo di funzionamento», che dovrebbe servire a definire il numero di ore di assistenza per ogni studente con disabilità, e che, secondo la prima analisi del corpo docente specializzato, rischia di penalizzare fortemente i suoi bisogni, in quanto non terrebbe conto della “diagnosi funzionale” e del Profilo Dinamico Funzionale (PDF).
Al riguardo, mi permetto di osservare che lasciare che la definizione delle necessità di ore per il sostegno sia determinata da una diagnosi, come oggi avviene erroneamente il più delle volte e non dagli interventi didattici del PEI (Piano Educativo Individualizzato) e dunque da un progetto educativo “vero e proprio”, questo sì che è delegare alla sanità la principale prerogativa dell’educazione, quella didefinire i bisogni formativi dell’alunno.
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Infatti, un’altra grave lacuna dell’emanando Decreto sull’inclusione, denunciata dagli insegnanti “partigiani” sarebbe il cambiamento di prospettiva per cui il docente per il sostegno diverrebbe una sorta di “tutor” iperspecializzato nell’assistenza ai disabili, ma non necessariamente un insegnante: tale nuovo approccio “paramedico” snaturerebbe la professionalità dell’insegnante di sostegno, collocandolo sullo stesso piano delle figure socio-sanitarie che già operano in contesti non scolastici con il ragazzo disabile.
In proposito, vorrei rappresentare agli amici docenti in “rivolta” che, per porre finalmente rimedio alla precarietà di ruolo e funzione degli insegnanti per il sostegno, sulla base delle notizie finora trapelate, con la delega sull’inclusione, si andrebbe finalmente nella direzione di una loro formazione iniziale e continua, con specificità profonde e una conoscenza adeguata delle esigenze degli alunni disabili. Dunque, altro che non insegnanti od addirittura figure “medicalizzate”. Essi dovrebbero essere invece insegnanti “universali”, ma con una specializzazione sui temi dell’inclusione e sulle singole disabilità.
In particolare, per tutti i gradi di istruzione, per poter insegnare sul posto di sostegno, dovrebbe essere obbligatorio conseguire 120 crediti formativi universitari sull’inclusione scolastica (oggi si diventa docenti di sostegno con soli 60 Cfu, ovvero 1 anno di specializzazione).
Tutti i futuri docenti di ogni ordine e grado dovrebbero avere inoltre, nel loro percorso di formazione iniziale, crediti riguardanti le metodologie per l’inclusione.
Quanto alla revisione dei criteri di inserimento nei ruoli del sostegno didattico, l’obiettivo dichiarato dovrebbe essere quello di garantire la continuità del diritto allo studio degli allievi disabili, facendo sì che gli stessi abbiano lo stesso docente per il sostegno per l’intero ordine o grado di istruzione (quindi il medesimo insegnante per il sostegno per i 5 anni di scuola primaria, per i 3 anni di scuola secondaria di I grado e per i 5 anni della scuola secondaria di II grado).
Ma nel mirino c’è anche la mobilità della riforma della Buona scuola, «che ha lasciato ben 50 mila studenti senza docente specializzato sul sostegno.
Su tale aspetto specifico, per dovere di cronaca, mi corre l’obbligo chiarire che tali procedure di mobilità non hanno nulla a che fare con la riforma del sostegno in arrivo.
Infatti, a causa delle tantissime non ammissioni dell’ultimo concorso e dell’enorme domanda di insegnanti di sostegno (circa 120.000 in servizio di cui circa il 60% di ruolo), il sistema scolastico territoriale è andato letteralmente in tilt. Si ricordi in proposito la nota Protocollo n. 24306 del 1° settembre 2016, che recita testualmente: «In caso di esaurimento degli elenchi degli insegnanti di sostegno compresi nelle graduatorie ad esaurimento, i posti eventualmente residuati sono assegnati dai dirigenti scolastici delle scuole in cui esistono le disponibilità, utilizzando gli elenchi tratti dalle graduatorie di circolo e d’istituto, di prima, seconda e terza fascia».
Migliaia di cattedre di sostegno sono state affidate a docenti senza alcun tipo di specializzazione, costringendo così le famiglie di persone con disabilità a ricorrere sempre più spesso ai giudici per dare un’istruzione ai loro figli.
Infine, i docenti “partigiani della scuola pubblica” lamentano che, senza aumentare le ore di ssostegno (ne servirebbero almeno 18 a settimana), gli alunni/studenti con disabilità non avranno mai la possibilità di apprendere come gli altri.
Relativamente a quest’ultimo punto, a mio modesto avviso, il problema non sta nel numero di ore di sostegno (che stante così le cose nell’attuale sistema educativo e formativo italiano è comunque importante), ma è quello di capire se, con la futura delega sull’inclusione ci sarà un’effettivo” cambiamento qualitativo.
Infatti, come riportato da uno studio diffuso dall’ISTAT qualche settimana fa, gli alunni italiani con disabilità che hanno frequentato le scuole primarie e secondarie nell’anno scolastico 2015-2016 sono stati 155.971, mentre gli insegnanti per il sostegno sono arrivati a quota 82.000, uno ogni due alunni disabili.
Si tratta di numeri in crescita (nell’anno scolastico 2001-2002 gli allievi con disabilità erano circa un punto percentuale in meno).
Eppure, nonostante assistiamo ad una crescita esponenziale del numero degli insegnanti specializzati, l’equazione “più sostegno = più inclusione” sembra non funzionare affatto nel presente “sistema scolastico” italiano.
Allo stato attuale, siamo effettivamente ancora costretti ad imbatterci il più delle volte in educatori e docenti con un’inappropriata preparazione ed una formazione inadeguata ad assicurare un’inclusione scolastica di qualità ai ragazzi con disabilità del terzo Millennio.
Il messaggio della “normale” Didattica inclusiva stenta ancora a decollare nelle nostre scuole e ci scontriamo di sovente con interventi didattici inclusivi esclusivamente “episodici” e che hanno soltanto il carattere dell’urgenza e dell’emergenza e non di “contesto”.
Voglio dire che la sola assegnazione dell’insegnante di sostegno con un numero congruo di ore all’alunno/studente con disabilità non è sufficiente a garantire il loro successo scolastico e formativo, se non affiancata da un contesto veramente “inclusivo”.
La nomina del docente per il sostegno, seppur rappresentando un “sacrosanto” diritto assolutamente esigibile dai nostri ragazzi e dalle loro famiglie, da sola rischia di essere quasi inutile e di ripetere le “distorsioni” e gli sbagli dell’attuale modello dell’inclusione scolastica, che hanno finito per provocare i “deprecabili” fenomeni della “deresponsabilizzazione” dei docenti curricolari rispetto ai suoi alunni con disabilità e la perversa “delega” al solo collega di sostegno dei loro insegnamenti e delle loro valutazioni.
Soltanto se la prossima delega sull’inclusione promuoverà l’organizzazione di un “contesto” veramente accogliente ed inclusivo, dove il Piano Annuale per l’Inclusività (PAI) sia parte integrante della progettazione, della didattica e della valutazione delle Istituzioni scolastiche italiane e, dunque, anche dei loro Piani Triennali dell’Offerta Formativa, si potranno realisticamente garantire per ogni alunno quelle condizioni di “pari opportunità” nel raggiungimento del massimo “possibile” dei traguardi d’istruzione, tanto decantate dalla recente normativa italiana sull’autonomia scolastica.
Tuttavia, quest’importante traguardo potrà essere perseguito, se si abbandoneranno finalmente posizioni preconcette di piccolo “cabotaggio”, nella consapevolezza che solo la collaborazione ed il confronto aperto tra tutte le parti coinvolte potranno rendere la via “inclusiva intrapresa dalla scuola italiana già quarant’anni fala strada maestra per l’educazione e l’istruzione di tutti e di ciascuno.
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