Mentre il tasso di natalità del Giappone crolla più velocemente del previsto, le chiusure delle scuole sono aumentate soprattutto nelle aree rurali.
Il calo delle nascite è un problema regionale asiatico, con i costi di allevamento dei figli che frenano le nascite in Corea del Sud e in Cina, ma la situazione del Giappone è più critica. Il Giappone è il Paese più anziano del Mondo: la percentuale di over 65 è salita al 29% ed è anche quello con l’aspettativa di vita più alta del Mondo, infatti 1 persona su 1500 è ultracentenaria.
Secondo i dati del governo giapponese sono circa 450 quelle che chiudono ogni anno. Tra il 2002 e il 2020, quasi 9.000 scuole hanno chiuso per sempre i battenti, rendendo difficile per le aree remote attirare nuovi e più giovani residenti.
Il calo demografico, in Giappone, ha avuto inizio verso la fine degli anni ‘70, ma mai sono stati raggiunti livelli così bassi. Secondo il Governo, i principali responsabili sono i cambiamenti di vita dopo la pandemia di Covid-19, inoltre i giovani tendono a sposarsi sempre più tardi. Da non dimenticare che c’è anche l’alto costo della vita: nel 2022 il Giappone è stato classificato come il Paese più costoso in cui far crescere un figlio e il tasso di fecondità (numero medio di figli per donna) è all’1,3.
Il Primo Ministro Fumio Kishida ha promesso misure senza precedenti per aumentare il tasso di natalità, tra cui il raddoppio del budget per le politiche legate all’infanzia.
Le nascite sono scese sotto le 800.000 unità nel 2022, minimo storico, secondo le stime del governo e otto anni prima del previsto, infliggendo un duro colpo alle scuole pubbliche più piccole che sono spesso il cuore delle città e dei villaggi rurali. Gli esperti avvertono che la chiusura delle scuole rurali amplierà le disparità nazionali e metterà sotto pressione le aree più remote. In altre parti del Giappone, le scuole chiuse sono diventate cantine o musei d’arte.
Nel 2021, in Europa le zone prevalentemente rurali rappresentavano quasi il 45 per cento dell’area totale, ma sono abitate solo dal 21 per cento della popolazione. Molti i fattori che determinano lo spopolamento, tra questi l’invecchiamento demografico, i bassi livelli di reddito, la mancanza di opportunità lavorative, l’allargamento del divario digitale, l’insufficienza di infrastrutture adeguate e l’impatto dei cambiamenti climatici. Nel periodo dal 2015 al 2020 la popolazione delle regioni rurali è diminuita dello 0,1 per cento in media ogni anno e a lasciare le zone rurali sono soprattutto i giovani con meno di 20 anni (- 0,6%) e le persone in età da lavoro (- 0,7 per cento).
In Italia il calo demografico delle zone rurali è più accentuato rispetto alla media europea: il report sulle previsioni demografiche del 20221 dell’Istat ha infatti rilevato che, a un calo demografico generalizzato nei fino al 2031, si aggiungerà una complessiva riduzione degli abitanti delle zone rurali, pari al 5,5 per cento. Questo significa che si passerà da 10,1 milioni di residenti a 9,5 milioni; i comuni con saldo negativo saranno l’86 per cento del totale e la drastica diminuzione investirà soprattutto il sud del Paese, con una riduzione della popolazione pari all’8,8 per cento.
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