Colpiscono nel mucchio. Spotted, “avvistati”. Presi di mira. Colpiti. Affondati. Travolti da compagni che li denigrano senza un movente che non sia la cattiveria. Senza neppure riconoscere il cyberbullo che c’è in loro. Bersaglio riconoscibile dall’intera scuola. Classe, iniziali, a volte nome e cognome. E poi ogni possibile metafora per segnalare una ragazza o un ragazzo come brutti, perdenti, tossici, sporchi, da emarginare. E poi i più malevoli pettegolezzi.
E poi i più feroci sinonimi per dire ”sei una ragazza facile”, per dire ”sei un fallito”, per dire ”sei un omosessuale”. R.L., II B, (riferimenti di fantasia), che è «un fr..», B.D., I A, che «è una ninfomane», G.F., II H, che «è una balena», D.L, II L, che «è un nano complessato». E poi c’è la «porcona», la «poraccia», quello «non si lava mai», quello che «sembra Moby Dick», quella che «è cagna dentro», quella che «fa i pomp.. a tutti», e via così.
E poi ”mi piace”, ”mi piace”, ”mi piace”, cliccano i lettori. E poi una risata agghiacciante, spietata, collettiva. Ahahahahaha!!!
Accanto a ”spotted”, il nome della scuola. La Polizia Postale ne ha già chiuse molte, su richiesta dei presidi, mentre montavano maree di insulti, pettegolezzi, oscenità, minacce, razzismo, omofobia. Contro i compagni. Talvolta contro i professori. Un’altra capriola del cyberbullismo, un’altra confezione virtuale di veleno da spandere nel web.
Eppure era cominciata con dolcezza. Era l’amore ai tempi del web. Erano le bacheche per incontri sognati e mai proposti. Messaggi anonimi. Sei splendida, sei fico, vorrei conoscerti, ti guardo da lontano e ti amo già. Lanciato da un’università di Londra, il primo ”spotted” italiano viene aperto dalla Sapienza di Roma tre mesi fa. Dodicimila iscritti in pochi giorni. E poi dilaga, e poi ringiovanisce. Sotto le dita compulsive dei più piccoli diventa un’altra cosa.
Firma anonima, a disposizione della comunità. Spotted Visconti, Mamiani, Farnesina, Mameli, Convitto, Dante, solo a Roma. Lo spotter può essere maschio o femmina, di una classe o di un’altra, piccolo o più grande. Può trasformarsi da bullo in bulleggiato o viceversa. I genitori ignorano.
I presidi no. Quelli dell’Asproni di Nuoro e dell’Agnesi di Milano hanno fatto chiudere le bacheche che pubblicavano una la lista di alunni gay, l’altra una raffica di insulti feroci contro gli insegnati. Chiusi anche gli ”spotted” di alcuni licei di Trieste, che avevano scaraventato certi alunni nella depressione, e del liceo Cossa di Pavia, dove avevano scatenato una rissa collettiva in piazza.
Pare che le ragazze siano le più attive. Come quella che, sulla bacheca di un liceo romano, scrive: «Ti amo anche se soffri di eiaculazione precoce». Con nome e cognome. Solo iniziali e classe, invece, per una tredicenne: «È incinta di uno del V B. Chiunque sia, faccia un fischio: la classe non ha intenzione di accudire un bambino». Sullo spotted di Piazza Cavour, qualcuno racconta di sballi, con perfidia: «A L.F. piace vomitare e dormire per strada».
«Si fa così, per ridere», spiegano gli autori.
Antonio Apruzzese, direttore della Polizia Postale, sa bene che affrontare il cyberbullismo è come misurarsi con una nebulosa in continua mutazione, con un’antropologia in continua evoluzione, con un’acrobazia virtuale collettiva, da parte di uno sterminato esercito di piccoli fantasmi compulsivi, aggressivi, fuori controllo, ansiosi di ferire. Prendiamo l’uso delle bacheche ”spotted” in certi licei. La Polizia Postale ne ha già chiuse alcune. Un fenomeno pericoloso?
«Sta dilagando. Rientra tra le opportunità sempre più numerose di colpire sul web nascondendosi dietro l’anonimato. Gli effetti sono imprevedibili. Accade, per esempio, che intere città si dividano in piazze virtuali sulle quali, partendo da un cyberspotting contro qualcuno, si scontra tutto un liceo, e poi più licei, e poi tutta la comunità».
«..e magari dallo scontro virtuale, si passa a quello reale. E’ successo in una città del centro sud. I nostri tentativi di incoraggiare una riappacificazione sono falliti perché alla fine nello scontro erano stati coinvolti pure i genitori».
«Sono attivissime le femmine. Equivalenti ai maschi, nel numero. Questi ultimi sono nettamente più propensi a minacce fisiche o riferimenti sessuali osceni. Le ragazze, invece, sono molto più sottili, più feroci. Usano la parola con cattiveria, per invidia nei confronti delle più belle, oppure per isolare le più timide, attraverso pettegolezzi, discredito, malignità sul loro aspetto fisico».
Chi sono i ragazzi che agiscono e quelli che subiscono?
«Non esiste una tipologia prevalente di ragazzi che subiscono e agiscono. I temi sono quelli classici del bullismo: infierire sulla diversità, denigrare a emarginare i più deboli. Le competenze informatiche permettono di scatenare a questo scopo vere e proprie guerre tecnologiche: i cyberbulli, tra l’altro, per isolare il loro perseguitato, possono persino inibirgli l’accesso a certe pagine, creargli del gruppi contro, rubargli l’identità».
E rubare l’identità «è diventato uno degli sport preferiti. I ragazzi lo vivono come un gioco, non sanno che si tratta di un crimine. Per farlo, basta sbirciare una password, oppure ricostruirla (sono abbastanza sprovveduti e prevedibili, nell’inventarle), oppure allestire un profilo falso usando foto e dati altrui. Spacciandosi per un altro, gli si possono far dire cose terribili, creargli guai e inimicizie feroci, fargli il vuoto attorno».
Per contenere l’emergenza è importante «la formazione, innanzi tutto. Stiamo lavorando moltissimo nelle scuole, e i risultati vanno al di là di quanto avevamo immaginato. L’impatto, nel rapporto coi ragazzi, è molto intenso. Li troviamo attenti, desiderosi di essere informati, di informarci, di confrontarsi. E’ uno scambio. Una scuola di vita per loro e anche per noi». (l’inchiesta è tratta da Il Messaggero)
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