Di Salvatore Distefano —–
In queste settimane, mentre cresce l’emergenza Coronavirus, molti si sono soffermati sul concetto di tempo. Ci ha provato, tra gli altri, Walter Veltroni sul”Corriere della sera”, che sottolinea come la condizione che stiamo vivendo impone un diverso rapporto col tempo. “Siamo diventati padroni del tempo e non siamo abituati, essendone stati schiavi, sempre di più schiavi. E il tempo ci spinge a cercarci. […] L’unità di misura del tempo non sono le ore, sono gli altri.”
A me sembra che sia vero esattamente il contrario. Siamo schiacciati dal tempo, che sembra non passare mai e che viene scandito da una emergenza che appiattisce e uniforma il trascorrere delle giornate in uno spazio ristretto, che limita i nostri movimenti. Sempre più somiglia, come afferma Platone nel Timeo,”all’immagine mobile dell’eternità” perché il tempo esprime l’ordine delle cose sensibili che sono l’imitazione della realtà vera ed eterna che non cambia mai, quella delle Idee.
Il tempo, dunque, nel momento stesso in cui esprime la presenza di una relativa armonia del mondo sensibile, implica anche l’irrimediabile caducità di tutto ciò che ne fa parte. Aristotele, andando oltre Platone, individua una strettissima connessione tra il tempo e lo spazio, per cui il primo risulta definibile soltanto con esplicito riferimento al secondo. Inoltre, si presenta per la prima volta la tematica del rapporto del tempo con l’interiorità dell’anima, che verrà in seguito ampiamente sviluppata (pensiamo ad Agostino). La soluzione cui perviene Aristotele non implica una radicale interiorizzazione del tempo, ma esclude, comunque, che esso possa essere pensato senza riferimento alcuno al soggetto. E a proposito del concetto di tempo, merita di essere citato Bergson, il quale distingue, con una delle teorie più originali, tra il tempo della scienza e il tempo della vita; nell’analisi del mondo esterno la scienza non fa mai uso dell’autentico concetto di tempo, ma si limita a constatare delle simultaneità nello spazio. In questa sua opera di riduzione del tempo a spazio la scienza è perfettamente legittimata; invece, il tempo della vita è strettamente legato all’interiorità e si identifica con la durata. Che il tempo fosse riconducibile all’interiorità non era certo una novità nel panorama filosofico: da Agostino fino a Kant, che ne aveva fatto la forma del senso interno, la tematica era stata ampiamente discussa e sviscerata. Pertanto, mentre il tempo spazializzato si può rappresentare con l’immagine della collana di perle, tutte uguali e distinte tra loro, il tempo della durata, in quanto puramente e radicalmente qualitativa, trova immagine in un gomitolo di filo poiché è da attribuire a tutto il mondo vivente, se non addirittura all’intera realtà. Ciò significa, per il Nostro, che senza la coscienza, non c’è alcun tempo, nemmeno quello qualitativo e spazializzato.
In queste settimane stiamo vivendo una condizione paradossale nella quale per sopravvivere dobbiamo fermare la nostra vita, comunque farla scorrere (?) molto lentamente; forse bisognerebbe “non vivere”, giungere a una sorta di noluntas schopenhaueriana, un nulla relativo, ma al tempo stesso, secondo il filosofo di Danzica, l’unica realtà vera, interiore e assoluta.
Infine, una riflessione sul concetto di limite, che ancora una volta ci riporta a Kant, perché in molti di fronte alla pandemia che ha colpito il Pianeta si sono interrogati sul senso della vita, sull’Aldilà, sulla “piccolezza” dell’uomo, e su tante altre questioni alle quali è sempre difficile dare risposta. A me non sembra corretto, anche in presenza di situazioni così drammatiche, giungere ad annullare il valore, il significato, il ruolo dell’umanità sulla Terra perché ciò sarebbe una forma di “nichilismo” privo di alcun fondamento, visto il progresso che la storia umana ha compiuto nei millenni. Lo studio delle civiltà del passato, e per noi quella classica in particolare, ci fa vedere lo sforzo compiuto dall’uomo per conoscere il mondo, per spiegarlo razionalmente, per mettere ordine nella realtà mediante una stretta unione di capacità tecnico-pratiche e di elaborazione intellettuale. E tutto questo è avvenuto grazie agli sforzi giganteschi e all’intelligenza straordinaria del genere umano. Certo, l’umanità è anche molto fragile, ma questo non significa, come teorizza qualcuno, che la fragilità sia la sua cifra e la sua essenza. Tra delirio di onnipotenza e annullamento esistenziale, penso che la via migliore sia quella indicata da Kant che pone nel limite il senso stesso della natura umana. Questo, il filosofo di Königsberg, lo afferma già a proposito della metafisica, definita scienza dei limiti della ragione umana: per essa, come per un piccolo paese, importa conoscere bene e mantenere i propri possedimenti, anziché andare alla cieca in cerca di conquiste. Sarà, dunque, importante stabilire i confini dell’esperienza, che non dovranno essere valicati; risulta, quindi, centrale e qualificante l’aspetto del limite, che rappresenta le “colonne d’Ercole” (pensiamo all’Ulisse di Dante) dell’umano e che ci ricordano l’impossibilità di diventare onnisciente e onnipotente. Tutto ciò non deve farci scadere in forme di scetticismo, di misticismo, di pessimismo, di nichilismo, o di qualsiasi altra concezione irrazionalistica. La condizione della specie umana è, dunque, segnata dall’essere circoscritta da limiti che, in quanto posti, vengono per ciò stesso superati (fichtniamente) <<l’uomo è l’essere confinario che non ha confini>> (G. Simmel).
Di questi problemi si era occupato, prima di morire, Remo Bodei, che in un libretto molto interessante, intitolato proprio Limite, (il Mulino, 2016), così scriveva: “I limiti ci circondano da ogni lato e sotto ogni aspetto, a iniziare dagli immodificabili dati della nostra nascita (tempo, luogo, famiglia, lingua, Stato), dall’involucro stesso della nostra pelle, dagli orizzonti sensibili, intellettuali e affettivi del nostro animo per finire con il termine ultimo della morte. […] Ma le principali civiltà contemporanee hanno davvero voluto cancellare faustianamente tutti i limiti? O sarebbe meglio sostenere che alcuni li hanno semplicemente spostati in avanti, altri li hanno messi ai margini o li hanno, per così dire, costretti a entrare in clandestinità, altri ancora li hanno addirittura riproposti, rivendicati e perfino violentemente rafforzati mediante la restaurazione dogmatica di fedi, mentalità e comportamenti del passato (come nel caso dell’applicazione letterale della sharìa, che significa, appunto, ritorno alla <<strada battuta>>)?”.
Salvatore Distefano
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