«Avresti un altro lavoro da consigliarmi? Dell’insegnamento non ne posso più!». Perché tanti insegnanti arrivano un punto tale di stanchezza da porre questa domanda ad amici e conoscenti? Stanchezza e demotivazione sono forse utili alla qualità dell’insegnamento? Una riforma del sistema d’istruzione non dovrebbe partire da queste domande?
E invece no. Forse la continua opera di riforma (deformazione?) del sistema scolastico italiano origina da esigenze del tutto diverse? Sempre meno si progetta una Scuola volta a creare la coscienza critica del cittadino e la sua preparazione alle professioni? Si mira semmai alla produzione di lavoratori con competenze minimali e standardizzate, da inserire in profili lavorativi prevalentemente esecutivi, flessibili, intercambiabili, con scarso potere contrattuale (proprio perché non dotati di capacità di approfondimento autonomo, di ragionamento divergente, di critica dell’esistente)?
Per ottenere tutto ciò, non serve la libertà d’insegnamento, né il pensiero divergente di chi insegna. Servono, al contrario, docenti addestrati ad eseguire una pedagogia unica calata dall’alto, e premiati (poco) per questo; serve la gerarchizzazione dei docenti e la svalutazione delle materie curricolari a vantaggio di “progetti”, “educazioni”, “corsi”.
Tutto ciò costa; molto meno, però, di quanto occorrerebbe spendere per risanare la fatiscente edilizia scolastica nazionale; per dimezzare il numero di alunni per classe; per eliminare l’enorme divario intercorrente tra i salari dei docenti italiani e quelli dei colleghi europei (e sudcoreani!). Eppure, sanando tali contraddizioni, migliorerebbe la vita di alunni e insegnanti, con benefìci per tutto il sistema. Sarebbe anche il segnale che, al di là delle chiacchiere, lo Stato considera l’istruzione dei cittadini davvero fondamentale.
Fondamentale, invece, per lo Stato, sembra esser ben altro, con qualsiasi governo di qualsivoglia colore politico.
Gira sul web una mappa concettuale con i loghi MIM, NextGenerationEU,PNRR, Futura – La Scuola per l’Italia di domani e ItaliaDomani. La mappa mostra quel che dovrebbe essere l’educazione scolastica secondo chi l’ha disegnata. Bibliografia, fonti pedagogiche, letteratura di riferimento non sono citati.
La mappa ha forma di planisfero, al cui polo Nord troviamo ovviamente le mitiche “competenze”, e al polo Sud l’“empowerment“. Sul meridiano di Greenwich “orientamento” e “mondo del lavoro”. Nell’emisfero occidentale, area climatica tropicale, troviamo il “curricolo”, cui corrisponde nell’emisfero orientale, più o meno alla stessa latitudine ma un po’ più a nord, la celeberrima “innovazione educativa e didattica” e, più o meno in corrispondenza del circolo polare antartico, il “PCTO”; al circolo polare artico sono confinate le “tecnologie”.
I capisaldi che abbiamo elencato, scritti in carattere arancione, sono collegati da linee curve di due colori il cui significato ci sfugge: nere terminanti con pallini neri e verdi terminanti con pallini arancioni. Tali linee curve collegano ai termini arancioni già elencati (e tra loro) tante altre parole d’ordine in caratteri neri (che forse devono costituire appunto il “pallino” dell’insegnante ben formato a cotanta dottrina?). Proviamo a nominarli tutti: nell’emisfero ovest, da nord a sud “contesto normativo”, “istituzioni e reti”, “didattica orientativa”, “divari”, “competenze per l’orientamento”, “territorio, “campus normativi”, “orientamento narrativo”; nell’emisfero est l’onnipresente “didattica digitale integrata”, “E-portfolio”, “ITS Academy”, “didattica laboratoriale”, “alternanza formativa”, “STEM” e (ciliegina finale), “JobShadowing”.
A questo punto il docente scelga tra due fatiche contrapposte. Fatica A: accettare tutto ciò, impararne a memoria forma, contenuto e ratio, dimenticando Piaget, Montessori, Vygotskij, Dewey, Neill e la Costituzione del 1948, e rendendosi disponibile ad attuare anche tutto ciò che non condivide (perché contrario a tutto quanto gli fu insegnato e che studiò a scuola, all’università e nei corsi per l’abilitazione all’insegnamento). In cambio, forse, se farà il bravo, il nostro eroico docente avrà qualche soldo in più, ringraziamenti dal proprio dirigente e un posto di responsabilità nella gerarchia scolastico-aziendale ad hoc costituita.
Fatica B: continuare a fare il lavoro in cui crede, in classe, sulle materie che insegna, privilegiando dialogo, empatia con gli studenti, lettura, ragionamento critico sui testi letti insieme ai ragazzi, educazione alla decodifica critica del testo scritto. Il tutto in aule deprimenti, sovraffollate, caldissime da marzo a novembre, tra la sfiducia di alcuni alunni, genitori, colleghi, dirigenti, allineati all’ideologia dominante della pedagogia di Stato, con cattedre frammentate e mutevoli, continui PDP da elaborare, compiti da correggere, organi collegiali, e via stressando.
Alla fatica B, per i docenti più consapevoli, si aggiunga la stanchezza del dover difendere le proprie idee didattiche nel Collegio dei docenti, sentendosi appioppare per di più l’accusa di voler “fare politica”, o di confondere il Collegio con un’assemblea sindacale.
Giova tutto ciò alla Scuola? E, assodato che non giova, come si può credere che l’ostinazione nel volerlo attuare sia casuale?
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