“I ragazzi usano i social come cassa di risonanza di dinamiche che sono sempre esistite. Grazie agli smartphone è possibile facilmente vessare. Questa crescita dell’aggressività è legata al fatto che abbiamo perso il rapporto e il dialogo con le classi e gli studenti”: queste le parole della docente e scrittrice Stefania Auci, intervenuta nel corso della diretta della Tecnica della Scuola di oggi, mercoledì 30 ottobre incentrata sul bullismo scuola in seguito alle polemiche relative al film “Il Ragazzo dai Pantaloni Rosa“ e agli ultimi avvenimenti sulle moltissime vittime di vessazioni scuola.
“Il malessere degli studenti viene riversato sui social. Il fatto che gli studenti preferiscano confrontarsi sui social dovrebbe farci riflettere sul fatto che non sappiamo offirere una buona alternativa. Un telefono diventa più credibile del rapporto con l’adulto”, ha aggiunto l’autrice dei libri della saga dei Leoni di Sicilia.
Ed ecco una riflessione sul ruolo degli insegnanti: “Un docente, se fa questo mestiere non solo per ricevere lo stipendio a fine mese fa, anche il genitore, l’assistente sociale, il medico. Riveste dei compiti che per natura contrattuale non gli competono. Eppure lo fa, si trova a maneggiare materiale umano, non si può trasformare in burocrate sebbene si va sempre più spesso verso la burocratizzazione”.
“Sembra che fare il progetto sul bullismo, ad esempio, sia un modo per mettere delle tacche e non ci si rende conto che si tratta di attività che vanno ad incidere sulle personalità dei ragazzi. C’è una visione aziendalistica e imprenditoriale della scuola. I ragazzi sono considerati consumatori e i docenti sono soggetti che erogano uin servizio. Nulla di più sbagliato. Abbiamo una delega formativa, dobbiamo coadiuvare la famiglia per fare diventare i ragazzi cittadini consapevoli”, ha aggiunto.
“Bisogna pensare ad un lavoro sul sistema scuola per dare paletti e non per reprimere. Se la scuola viene a sapere di atti di bullismo diventa fondamentale che i bulli capiscano di star facendo del male. La scuola ha il compito di educare insieme con le famiglie, e agire a monte per trasmettere il messaggio che non tutto ciò che vediamo sui social sia giusto. I ragazzini non si rendono conto di compiere dei reati. Non capiscono. Per i ragazzi non è tangibile la differenza tra realtà e finzione”, questo il pensiero.
Ed ecco un commento sulla recente legge Valditara sulla condotta degli studenti: “Se la sanzione viene data per punire non ha senso. Se viene data in misura commisurata e adattata allora può avere un esito. Questa stretta draconiana non mi piace, snatura la scuola, la scuola non deve trasformarsi in istituto di correzione.
“La presenza dello psicologo a scuola è utilissima. Intanto perché un terapista a scuola conosce le dinamiche, interviene in una maniera più fruttuosa rispetto ad un esterno. La figura è utile anche ai docenti, può aiutarlo quando il docente è particolarmente provato. Noi insegnanti facciamo cose che non ci competono e il problema è che non abbiamo magari una preparazione adeguata. Della nostra formazione l’aspetto pedagogico è lasciato a letere, anche se di recente è stato valorizzato nel caso dei docenti di sostegno, ma non tutti hanno questo tipo di preparazione. E magari si va per far bene e si fanno danni”.
“La figura dello psicologo andrebbe inserita nell’organico scolastico, così come è previsto il tutor per i Pcto, ad esempio. Posso semplicemente consigliare di parlare, parlare tanto tra di noi colleghi, con i ragazzi, cercare di capire dove inizia il malessere profondo e dove ci sono problemi psicologici con il coinvolgimento della famiglia. Bisogna ricordare che siamo docenti, poniamo regole, paletti, ma siamo anche essere umani, siamo stati alunni. Bisogna inserire una quota di umanità, di comprensione, e di rigore nel lavoro”.
“I ragazzi sono tutt’altro che stupidi, ma i social li desinsibilizzano. Rigore significa insegnare loro il rispetto, le loro responsabilità, che un certo tipo di condotta fa male, che ha conseguenze gravi. Sono convinta che i ragazzi che hanno vessato chi poi ha protestato con il suicidio abbiano dentro dei rimorsi e il pentimento, perché non hanno capito cosa hanno fatto. Devono comprendere che il male, con le parole, con i gesti, con i video, ferisce”.
“I ragazzi di 15-16 anni sono molto più crudeli di quanto pensiamo. Ma lo sono in maniera inconsapevole. Sono crudeli perché ritengono di non offendere. Non si rendono conto che una battuta cinica può avere il peso di una fucilata. C’è il bisogno di affermare la propria personalità, di sentirsi adulti e riconosciuti dai pari. Ci sono ferite psicologiche che magari queste persone portano addosso e non riescono a scaricare la propria rabbia. L’adolescenza è un campo di battaglia, tutti ne escono con i cerotti e con i pugni. Spesso si inizia a curare un soggetto affinché cambi il suo comportamento e gli lo cambino a ruota. Cambiare il singolo significa cambiare l’ambiente, smontare le dinamiche”.
“Da trent’anni c’è stato un progressivo smontare l’importanza dell’insegnante dai genitori. Non è più visto come un punto di riferimento con cui collaborare. Viene visto come il parcheggiatore del figlio, un soggetto che deve dare una formazione per farlo andare a studiare quello che vuole. L’ottica della collaborazione con le famiglie ha perso molto di importanza. La famiglia non collabora, ed è una delle motivazioni del fallimento della missione educativa e dell’attività delle scuole. Ci sono situazioni difficili, ma è anche altrettanto vero che il bene superiore è l’educazione dei ragazzi, che va salvaguardata sopra ogni cosa”.
“Sarebbe importante ascoltare la voce dei docenti. La famiglia ha il dovere di essere nella vita dei ragazzi ma non può immischiarsi nella didattica, non è il suo compito e neanche nelle attività di formazione e di ‘punizione’ a scuola. A scuola vigono delle regole che non possono essere messe in discussione. La scuola deve rappresentare la certezza. Non significa che deve trasformarsi in filiale dello stato di polizia. La scuola deve rappresentare con fermezza e serenità il recinto entro cui i ragazzi possono muoversi e imparare la convivenza civile, che significa limitare il bullismo e lavorare sul rispetto, sull’affettività, sull’educazione sessuale, di genere, sui principi morali, la cittadinanza. La cittadinanza passa dalle piccole cose, dal rispettare il banco, la maniglia della porta del bagno”, queste le sue parole.
Perché sarebbe giusto vedere il film “Il ragazzo dai pantaloni rosa“? Ecco la risposta di Auci: “I film e i video arrivano in maniera più diretta rispetto alle parole. Risulta fondamentale fare arrivare i ragazzini preparati. Magari i ragazzini che hanno fischiato non avevano avuto contezza della storia. Il disagio va smontato, va spiegato, va fatto capire che se c’è una differente inclinazione da parte di un compagno va rispettata e non dileggiata. Ma è un lavoro lungo, io per quello che vedo la vedo difficile”, ha concluso.
Una tragedia immane che è diventata film: si intitola “Il ragazzo dai pantaloni rosa” la pellicola, sul giovane che nel 2012 si tolse la vita 15 anni dopo essere stato vittima di cyberbullismo a causa del suo orientamento sessuale.
“Il ragazzo con i pantaloni rosa” è il nome del gruppo Facebook creato dai ragazzi che vessavano il giovane, solo perché un giorno li aveva indossati per andare a scuola. La madre aveva lavato i pantaloni rossi che aveva regalato al figlio, la stoffa si era stinta, erano diventati rosa ma lui li aveva messi lo stesso.
La madre, insignita del titolo di Cavaliere dal presidente Mattarella, dopo il tragico fatto ha iniziato a girare nelle scuole per sensibilizzare contro il bullismo; sostiene che quel che ha ucciso suo figlio è il silenzio: degli insegnanti, della classe, il suo.
Le polemiche relative alla visione del film da parte degli alunni sono nate dai gridolini, risatine, insulti omofobi di alcuni ragazzi nel corso della presentazione ufficiale. “Continui e gratuiti applausi di scherno, fischi, ululati, risatine, chi gridava “fr*cio”, chi “ma questo quanno s’ammazza”, davanti ad un film che parlava proprio di bullismo, tratto da una storia vera, di un 14enne che si é suicidato”.
Qualche giorno dopo anche dei genitori di una scuola media di Treviso hanno avuto da ridire sulla proiezione della pellicola, sostenendo che la sua visione avrebbe potuto avere influssi “negativi” sui loro figli.
La proiezione dell’opera, che vede Claudia Pandolfi nei panni della madre, era prevista il 4 novembre, e l’istituto aveva già prenotato i posti per gli studenti. Alcune famiglie hanno però chiesto alla dirigente di evitare la partecipazione dei ragazzi. La preside della scuola ha accolto la richiesta, pur precisando che la proiezione è stata solo temporaneamente sospesa.
Teresa Manes, la madre del ragazzo, ha commentato: “A me fa paura che la scuola, di fronte all’opposizione di due o tre genitori, abbia deciso di fare un passo indietro. Di questo ho avuto notizia subito, perché c’erano altri genitori, favorevoli alla proiezione, che mi hanno contattato. Serve coraggio, se vuoi affrontare il problema, non basta aderire in maniera generica alle giornate anti-bullismo senza mettere in atto un lavoro profondo”.
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