Conclusa la settimana dedicata alle discipline STEM (4-11 febbraio), ci si pone da più parti la domanda su come siamo messi in Italia con il divario di genere nella cultura scientifica. La risposta non è incoraggiante. Siamo messi ancora male, a giudicare dai dati statistici disponibili. L’osservatorio sulle povertà educative “#conibambini”, in collaborazione con “Openpolis”, nel suo report dal titolo “Stem, una sfida per l’Italia”, ci dice, fra l’altro, che “a fronte di una media Ue di circa 21 laureati Stem ogni 1.000 giovani tra 20 e 29 anni, le laureate sono solo 14,9. Il dato dei maschi è quasi doppio: 27,9”. In Italia, le cose vanno perfino peggio: le laureate sono 13,3 ogni 1000 giovani.
Questo divario parte già in fase di orientamento: nei Paesi in cui si effettuano i testi OCSE-PISA, i 15enni maschi particolarmente bravi in Matematica (i cosiddetti “top performers”) che immaginano per sé la carriera in ambito scientifico quando avranno 30 anni, sono il 26% tra i ragazzi e solo il 14,5% fra le ragazze. Ma in Italia il dato è, manco a dirlo, ancora più basso: le 15enni sono solo il 12,5%.
Per troppi anni si è pensato che questo divario dipendesse da una costitutiva scarsa predisposizione delle studentesse verso le materie scientifiche (in particolare, verso la matematica) rispetto ai loro colleghi maschi. Una sorta di misteriosa tara biologica con cui bisognava fare, più o meno obtorto collo, i conti.
A smentire questo radicato pregiudizio, oltre al sempre salvifico buon senso, ci soccorrono i dati. In alcuni Paesi (Finlandia, Grecia, Slovenia, Svezia, Paesi Bassi) le cose vanno infatti ben diversamente: soprattutto nelle scienze, le medie di competenza registrate fra le ragazze superano nettamente quelle dei ragazzi. E i risultati si pongono su un piano di sostanziale parità in diversi altri Paesi (fra cui Francia e Germania).
E per la matematica? La situazione in questo caso vede ancora un sensibile vantaggio degli studenti rispetto alle studentesse in quasi tutti i Paesi OCSE, ma non in tutti: le finlandesi, le lituane e le svedesi superano i loro colleghi maschi non solo in scienze ma anche in matematica.
Il problema alla base di questo divario è quindi meramente (ma non banalmente) culturale. Il report collega infatti in modo forte tale disparità di genere (correttamente, a nostro parere) alle aspettative sociali. La persistenza di forti stereotipi socioculturali (di cui spesso non si è nemmeno consapevoli) da parte di tanti genitori ed educatori determina infatti un impatto sull’autorappresentazione mentale di figli e allievi fin dalle età più precoci.
In linea con le ben note dinamiche legate al cosiddetto “effetto Pigmalione”, quando gli adulti educatori hanno un’aspettativa di un certo tipo sui propri figli o allievi, trasmettono loro (anche involontariamente) una serie di stimoli e di informazioni aggiuntive “preindirizzate”, informazioni veicolate da atteggiamenti e comportamenti, più che da discorsi espliciti, ma che vengono interiorizzate profondamente dai destinatari.
Una delle più immediate (e rovinose) conseguenze di ciò, per il nostro tema, è l’attivarsi, nelle bambine e nelle ragazze, di una più bassa percezione di autoefficacia rispetto alle proprie capacità nelle materie STEM. Il rischio dell’abbassamento della percezione di autoefficacia è sempre dietro l’angolo e può riguardare ovviamente qualunque studente, ma risulta più ampio per chi sconta già, a monte, il peso depotenziante di aspettative negative, pessimistiche, all’interno del proprio ambiente.
Sembra essere questa bassa percezione a rappresentare il principale ostacolo al successo formativo in quelle discipline da parte delle studentesse. Lo dimostra il fatto che il gap fra maschi e femmine nelle materie scientifiche si azzera se il raffronto sui risultati conseguiti in quelle discipline avviene fra studenti e studentesse che hanno una buona percezione di autoefficacia rispetto ad esse.
Evidentemente, il problema nasce quando la studentessa parte già dal presupposto (che alberga in qualche angolo della sua mente) che la matematica non è esattamente “per lei” o che comunque non potrà avere facilmente successo in questa disciplina. Presupposto che trova facilmente modo di autoconfermarsi man mano che aumenta il ritiro “di difesa” da quelle discipline.
Se non crede che ce la farà o che quelle materie siano fatte per lei, la ragazza tenderà magari a studiarle con meno passione e meno certezza di riuscire, o con ansie e sensi di colpa aggiuntivi, con aumentata paura di sbagliare, con meno capacità emotiva di mettersi in gioco e di esplorare soluzioni alternative. L’autoconvincimento in direzione pessimistica è insomma il nemico numero uno da combattere, se si vuole azzerare il divario di genere in questione. E tale autoconvincimento trova base di appoggio negli stereotipi di genere che si respirano soprattutto nelle famiglie (e, talvolta, non solo lì).
Le conseguenze di questi perniciosi stereotipi, a valle, sono molteplici ed impattano anche sul divario salariale fra uomini e donne nella nostra società. Il più ridotto accesso a lauree come quelle scientifiche, mediamente più remunerative di altre (per una serie di motivi legati al mercato del lavoro), determina infatti anche un aumento del gap retributivo medio fra maschi e femmine. Insomma, da una idea (una cattiva e infondata idea) molto radicata, derivano conseguenze di ampia portata su aspetti anche molto lontani dal suo terreno d’origine.
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