Stipendi bassi, pochi investimenti e contratto in alto mare: il malcontento cresce
In Italia si dice da sempre che gli stipendi dei professori sono troppo esigui, che chi ha famiglia e lavora a scuola è costretto ad “arrotondare” con un’altra occupazione: ora che però che anche i sindacati si mobilitano chiamando a raccolta i propri iscritti a manifestare per un contratto di categoria scaduto da oltre 15 mesi la questione assume maggiore interesse. In effetti i rappresentanti sindacali puntavano molto su un brillante rinnovo del contratto attraverso cui poter risollevare le tasche del personale della scuola. Ma invece dell’aumento è arrivata la doccia fredda dell’ultima Finanziaria, che ha introdotto una rimodulazione delle aliquote Irpef, le quali, messe in rapporto con l’aumento generale della tassazione e con i contributi previdenziali, hanno determinano un incremento complessivo della tassazione e un abbassamento reale delle retribuzioni. A completare il quadro fosco ci ha pensato poi, nelle ultime settimane, l’inerzia del Governo che non avendo ancora predisposto la trattativa del rinnovo ha praticamente spostato il discorso rinnovo a dopo l’estate: anche i Confederali, teoricamente più vicini alle idee della maggioranza, non si sono così potuti più sottrarre all’evidenza dei numeri e alla mancata volontà anche da parte di questa maggioranza di voltare pagina. Almeno nel breve periodo.
In effetti è difficile pensare il contrario. In Italia la spesa pubblica per l’istruzione in rapporto al Pil è tra le più basse in Europa: appena il 4,8% contro una media Ocse del 6,1%. Per fare un raffronto reale, basta dire che nazioni vicine a noi come la Francia (5,6%), l’Austria (il 5,5%) e la Danimarca (6,8%) investono molti più soldi all’anno. Ma quello che ha fatto probabilmente infuriare i lavoratori del comparto più grande della pubblica amministrazione (con oltre 1 milione e 100 mila dipendenti) sono stati i recenti dati Istat sul trend relativo all’incidenza della spesa per l’istruzione sulla spesa pubblica totale: nel 1990 nel nostro paese l’incidenza era del 10,3%; dopo 15 anni, nel 2005, è scesa al 9,7%. Un decremento – fatto registrare solo dal ministero della Pubblica Istruzione e della Difesa – pari allo 0,6% che in termini pratici ha voluto dire meno 4,2 miliardi di euro l’anno. “L’istruzione, il sapere, la scuola vanno considerati come settori di investimento – sostiene invece Massimo Di Menna, segretario generale della Uil Scuola – e per questo occorre dare risposte concrete all’esigenza di una politica di investimenti: sia per la qualità della scuola pubblica che per una qualificata politica per lo sviluppo del Paese e la coesione sociale. Questa scelta per sostenere la scuola pubblica deve trovare concreto riferimento nel Dpef e nella prossima Finanziaria”.
In questo mancato quadro di mancati investimenti era pressoché praticamente certo che i già magri stipendi (i quali già assorbono ben oltre il 90% della spesa complessiva per la scuola) subissero un’involuzione. Ma quando guadagna oggi un dipendente della scuola pubblica? I dati sono noti: un maestro della scuola materna o elementare appena assunto a tempo indeterminato percepisce uno stipendio netto di 1.270,36 euro; dopo 15 anni di 1.394,23 e al termine della carriera di 1.656,33: un collega delle scuole superiori ad inizio carriera prende in busta paga 1.270,36 euro, che diventano 1.548,85 dopo 15 anni e 1.863,21 dopo 35. Va ancora peggio il personale non docente: un collaboratore scolastico (il bidello) percepisce inizialmente 922,18 euro; dopo 15 anni passa a 1.032,18 e prima di andare in pensione non oltre 1.136,50. Gli amministrativi appena assunti guadagno 1.010,79 euro, sempre netti; dopo 15 anni 1.152,24 e al termine della carriera appena 1.288,89. “Noi siamo un Paese – commenta Enrico Panini, segretario generale della Flc-Cgil – nel quale si investe troppo poco in scuola e in personale, ma le risorse, come ci dicono in questi giorni autorevoli esponenti di Governo quando fanno il punto sullo stato della nostra economia, ci sarebbero: il Governo si era impegnato ad aprire un tavolo di confronto con noi per definire politiche condivise ed obiettivi comuni sulla conoscenza e, a distanza di mesi, non è accaduto nulla”.