È un dato di fatto: i docenti italiani guadagnano poco. La colpa è dei “demeritevoli”? E, ammesso pure che sia così, basterebbe dimezzare lo stipendio ai “demeritevoli” e raddoppiarlo ai “meritevoli” per sanare la situazione e per portare la retribuzione dei docenti ai livelli dei Paesi occidentali avanzati? È sempre più evidente, infatti, che la parola “merito” non è usata pensando agli studenti, ma ai docenti.
La risposta è no, comunque; soprattutto se lo scopo è, come sempre, non investire un centesimo in più nella Scuola. Infatti, prima di tutto occorrerebbe definire nel dettaglio cosa significhi “merito”: ma ciò non viene fatto, perché già esistono — da sempre —tutti gli strumenti giuridici contrattuali per verificare quali docenti lavorino bene e quali no.
Basta dunque, per risolvere i sempre più incancreniti problemi strutturali della Scuola, fissare la nostra attenzione sul “merito”?
Ovviamente no, non basta. Ci vuole la decisione politica di investire miliardi sulla Scuola, istituzione dalla quale si è disinvestito ogni anno dal 1982 ad oggi.
Da 30 anni abbondanti ci sentiamo ripetere dai media che i docenti sono poco “produttivi”, che non “erogano” un “servizio” efficiente, che non garantiscono il “successo formativo” degli studenti. Per renderli più “efficienti” e “produttivi”, li si è fatti lavorare in regime di privatizzazione del rapporto di lavoro (immettendoli nel Pubblico Impiego con il D.Lgs. 29/1993, che privatizzò il rapporto di lavoro del Pubblico Impiego stesso), in nome del dogma — di fede neoliberista — secondo cui il privato sarebbe più efficiente.
Si dà il caso, però, che insegnare non è erogare, né distribuire, né fornire alcunché. Tra docente e discente non esiste un rapporto univoco da erogatore a recipiente, come potrebbe esser quello tra pompa di benzina e serbatoio dell’automobile: se fosse così, altrimenti, il miliardario sudafricano Elon Musk potrebbe presto produrre un cavo USB per trasferire il sapere dal chip installato nel cervello del docente al chip impiantato nel cervello del discente.
No: né insegnamento né apprendimento funzionano così, perché l’essere umano non è una macchina (malgrado gli sforzi di molte persone importanti per renderlo tale). L’insegnamento e l’apprendimento nascono da un’interazione metodologica e didattica nella quale è fondamentale il ricorso del docente alle proprie emozioni, per accendere nel discente il desiderio di conoscere, di imparare a conoscere, di apprendere, di creare nuovo sapere.
Un lavoro del genere non può farlo né una macchina, né uno schiavo senza diritti, né un impiegato costretto all’obbedienza. Allo stesso modo, l’alunno non è un serbatoio da riempire di nozioni di cui non capisca l’utilità, né un animaletto da addestrare a svolgere funzioni minimali in posizione perpetuamente subalterna. L’insegnante è (e deve esser considerato) lo studioso alla ricerca di nuove vie culturali e formative.
Il “diritto al successo formativo”, d’altronde, non è (né può essere) diritto al titolo di studio a prescindere dalla realtà dell’impegno personale e delle conoscenze acquisite, ma la conclusione e il frutto dell’interconnessione e della reciprocità docente/discente, dal punto di vista sia didattico, sia personale.
Chiarito ciò, vogliamo proprio parlare di “misurazione” del “merito” di insegnanti ed alunni? Bene: allora cominciamo, una buona volta, a ridurre il numero degli alunni per classe a 15 (20 al massimo). Solo allora avrà senso cominciare a parlarne.
Invece di far questo, si è preferito trasformare gli insegnanti in travet esecutivi, malgrado le disposizioni costituzionali sulla libertà di insegnamento, e nonostante i Decreti Delegati. Scelta che non ha però riguardato i docenti universitari, i quali, nel nostro bizzarro Paese, continuano ad avere uno status giuridico pubblico (ossia non privatizzato) proprio perché fuori dal Pubblico Impiego! A loro, giustamente, è riconosciuta la specificità unica della funzione docente, misconosciuta invece per decreto legislativo dal 1993 ai docenti delle scuole. Una funzione diversissima da quella di chi “eroga” un “servizio”, perché essa non consiste nella “trasmissione” pura e semplice del sapere, ma nella ricerca e nello sviluppo del sapere medesimo e delle vie attraverso le quali diffondere istruzione, formazione, educazione.
Per questo la Scuola è concepita dalla Costituzione della Repubblica Italiana come istituzione e non come “servizio”. Tanto che Piero Calamandrei (uno dei Padri costituenti più insigni) la definì organo costituzionale; e mise in guardia da eventuali “cuochi di bassa cucina” che volessero «rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico».
Il merito vero sarà di quegli uomini e donne di Stato che dimostreranno coi fatti di voler invertire questa deriva: la quale, se ignorata, trascinerà nella rovina l’Italia intera.
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