La convocazione dei sindacati, il primo giorno di febbraio, per la presentazione dell’Atto di indirizzo del rinnovo contrattuale del pubblico impiego, ha sancito il via alla contrattazione che porterà all’assegnazione di un centinaio di euro (lordi) dipendente: una somma che per gli insegnanti potrebbe elevarsi di una decina di euro, ma nulla più. Quindi, per i docenti si potrebbe arrivare a 110 euro, mentre a praticamente per tutti gli Ata, più tutti coloro che hanno poca carriera alle spalle, ci sarà finalmente la copertura a regima della cosiddetta “perequazione”, che paradossalmente minacciava proprio gli stipendi più bassi.
A livello economico, francamente, la partita con i sindacati sembra già chiusa prima di partire: considerando la limitatezza delle economie messe sul tavolo con le ex Finanziarie dell’ultimo triennio, i margini di trattativa sono davvero limitati.
Il confronto Aran-Sindacati si sposterà, quindi, su altri ambiti: come la formazione obbligatoria, anche in orario di servizio, l’introduzione nel Ccnl del middle management, con circa 100mila docenti appartenenti allo staff che sperano in un inquadramento superiore, e il diritto alla disconnessione, che con il Covid è diventato una necessità impellente anche se va trattato nel giusto modo perché potrebbe rivelarsi un’arma doppio taglio.
Ma se i soldi messi sulla bilancia sono quelli, cosa dobbiamo aspettarci? La risposta è semplice: il docente e l’Ata della scuola italiana continuerà a ricevere un compenso decisamente basso. Confermando, dunque, le stime che solo poche settimane Eurodyce ha prodotto: i nostri insegnanti vanno collocati tra quelli che percepiscono le buste paga più basse del Vecchio Continente.
Oggi, gli stipendi annui dei docenti italiani si aggirano tra i 22.000 e 29.000 euro. Molto di più guadagnano in Belgio, Irlanda, Spagna, Paesi Bassi, Austria, Finlandia, Svezia, Islanda e Norvegia, dove la remunerazione media viaggia tra i 30.000 e 49.000 euro all’anno. Addirittura in Germania, Svezia e Danimarca si superano i 50.000 euro annui, doppiando in pratica quelli dei nostri.
Il problema, a dire il vero, coinvolge anche altri comparti. “Siamo di fronte ad una pandemia salariale“, ha detto a Torino l’ultimo giorno di gennaio Maurizio Landini, il leader della Cgil, commentando il Governo che festeggia i dati del rimbalzo economico del 2021.
Landini ha ragione, perché chi governa “omette di dire che nel frattempo inflazione e diseguaglianza si stanno mangiando il potere d’acquisto degli stipendi”, ha commentato Nicola Fratoianni, segretario nazionale di Sinistra Italiana.
Fratoianni si è spinto oltre, indicando come “combattere le piaghe del lavoro povero e dei bassi salari”: servirebbero, dice, “una legge sulla rappresentanza contro i contratti pirata, un intervento sul salario minimo, una riforma del lavoro che riduca la precarietà, un fisco più progressivo, una patrimoniale sulle grandi ricchezze, servizi pubblici migliori e gratuiti, in primis in sanità, scuola e trasporti pubblici”.
Parlando solo di scuola, a commento dell’avvio del tavolo della contrattazione per il rinnovo del contratto, anche i sindacati hanno puntato il dito sulla scarsità di risorse: “Se non si compirà uno sforzo grande per reperirne altre, la trattativa è destinata inesorabilmente a incontrare grandi difficoltà”, ha detto Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Fgu-Gilda degli Insegnanti, aprendo il suo intervento proprio con il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi.
“Attualmente parliamo di un aumento intorno al 4% che, non solo non basta a colmare il divario con il resto dei dipendenti del pubblico impiego, ma che tra un anno – ha sottolineato Di Meglio – sarà già del tutto eroso dall’inflazione prevista al 5%”.
Per Marcello Pacifico, presidente Anief, l’inflazione da recuperare è di 14 punti: “è evidente che le risorse finanziate ad oggi non bastano per allineare gli stipendi all’inflazione. Servono delle specifiche indennità per tutto il personale della scuola: indennità di sede, indennità d’incarico e indennità di rischio biologico per lavorare al tempo del Covid”.
In effetti, nel tempo per un docente che lavora nella scuola il livello della busta paga si è progressivamente ridotto: l’unico aumento degli ultimi 12 anni è il 3,48% del 2018. Nel frattempo, il costo della vita si è alzato. E anche di molto: ammesso che l’inflazione sia lievitata ogni anno di non meno dell’1,5%, significa che oggi siamo attorno il 15% sotto. E che il 4% che Aran e sindacati si accingono a sottoscrivere non cambierà di molto le cose.
Servirebbero, per cancellare almeno il ritardo rispetto all’inflazione, non meno di 200-300 euro ulteriori a dipendente. Ma siccome parliamo di oltre tre milioni di lavoratori, quelli del pubblico impiego, i miliardi necessari sarebbero svariati: decine. Troppi, per pensare di ottenerli. Ancora di più perché la vera emergenza nel 2022 continua a chiamarsi Covid-19.
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