Già nel marzo 2022 avevamo messo in guardia i nostri lettori — quasi tutti docenti — dai guai che la spirale inflativa avrebbe provocato al loro potere d’acquisto in assenza di salari indicizzati all’inflazione stessa. Avevamo ragione: come scrive il nostro Direttore, in due anni tutti i salari hanno perso almeno il 15% del proprio potere d’acquisto. Per un docente che guadagna 1.300 euro al mese, ciò significa che quei 1.300 euro oggi valgono come 1.105 di due anni fa. Un docente di scuola media di secondo grado a fine carriera perde, dei suoi circa 2.070 euro netti, 310 euro al mese di potere d’acquisto rispetto al luglio 2021. Tutto lo stipendio non basta più a pagare cibo, vestiario, bollette, affitti, manutenzioni, tasse, medicine, cure per sé e famiglia. Presto insegnerà chi può permetterselo perché ha beni al sole: la docenza diventa un lusso, quasi fosse un’attività di volontariato (come già 40 anni fa quella dell’archeologo).
Nell’articolo di 16 mesi fa, pertanto, ritenevamo urgente istituire di nuovo qualcosa di simile alla “scala mobile”, che dal 1945 al 1992 aveva sostenuto i salari, portando l’Italia al quarto posto nel mondo tra le potenze industriali nel 1991. Qualcuno ci aveva criticati ricorrendo al dogma di tutti i media mainstream: «La scala mobile causa l’inflazione» (anziché esserne conseguenza). Eppure basta studiare un po’ l’argomento — senza pregiudizi — per sfuggire alla propaganda e accorgersi del contrario: ricordando, ad esempio, che la scala mobile non aumentava la capacità di spesa dei lavoratori, ma ne compensava almeno in parte la diminuzione.
L’inflazione è utile a pochi e disastrosa per molti. Se ne avvantaggiano i debitori. Ne è danneggiata la maggioranza, ossia la massa sconfinata dei creditori.
Sono tra i debitori le banche, che devono ai risparmiatori i propri capitali. Sono debitori imprenditori e industriali, che hanno lavoratori alle proprie dipendenze, cui devono pagare gli stipendi. È debitore lo Stato, che deve i salari a tutti i propri dipendenti (tra cui quasi un milione di docenti e 300.000 ATA, ossia il 35,1% del personale delle amministrazioni pubbliche), e che ha un debito pubblico tra i maggiori del mondo, in gran parte nelle mani di risparmiatori italiani.
Dell’inflazione si avvantaggiano dunque industriali, banche e Stato. Ne sono danneggiati i creditori: risparmiatori (piccoli, ché i grandi investono loro volta in imprese ben più redditizie dei conti di deposito e dei titoli di Stato) e lavoratori dipendenti. Per questo l’inflazione è stata definita “una vera lotta di classe”: la definizione non è di Marx né di Trockij né di Bakunin: è di Rony Hamaui, banchiere e professore universitario che scrive su testate non sospette come lavoce.info (nata per iniziativa di docenti universitari ed economisti non certo antiliberisti, del calibro di Tito Boeri, Massimo Bordignon, Lorenzo Fazio, Francesco Giavazzi, Pietro Ichino e Michele Polo).
Ergo, porre un argine all’inflazione mediante meccanismi perequativi (come appunto la scala mobile) decisamente non è tra le priorità di Confindustria, banche e Stato. Ciò è dimostrato non solo dal dogma fatto circolare per 40 anni sulla “pericolosità” della scala mobile. Lo prova anche quanto scritto dal Fondo Monetario Internazionale: l’attuale inflazione è provocata dai profitti, che la superano di molto. Dunque sono le aziende a tenere alti i prezzi dei prodotti finiti per aumentare i profitti; a scapito, naturalmente, di chi i prodotti finiti li acquista (cioè degli stessi lavoratori, i cui salari non aumentano, se non molto lentamente). Perciò la spirale inflativa è dovuta alla speculazione, non a dati oggettivi né al costo del lavoro (che è anzi in diminuzione rispetto al prezzo del prodotto finito).
Scrive Altreconomia: «Il 2022 è stato un anno d’oro per le banche: l’utile netto dei sette principali gruppi italiani (Intesa Sanpaolo, Unicredit, BPM, BPER, MPS, Credem e Banca Popolare di Sondrio) si è attestato a 13,3 miliardi di euro, in aumento del 60,5% rispetto al 2021, trascinato dalla crescita del margine d’interesse (più 19,4%).»
Quindi, mentre la maggior parte delle famiglie italiane (tra cui quelle di chi lavora nella Scuola) si arrabattavano per arrivare a fine mese, le saccocce di industriali e banchieri si gonfiavano a dismisura. Trova conferma quanto dicevamo: l’inflazione ridistribuisce il reddito nelle tasche d’una minoranza più agiata (imprenditori, banchieri, categorie “protette” varie).
Anche nell’amministrazione statale l’inflazione non è temuta da esercito, magistrati, sicurezza, Università (per non parlare della classe politica): ossia dai dipendenti dello Stato non inclusi nel “Pubblico Impiego” dal D.Lgs. 29/93, che privatizzò il rapporto di lavoro del Pubblico Impiego stesso, vi inserì i docenti delle scuole, e ne legò gli aumenti salariali — abolita l’anno prima la scala mobile — a una percentuale della cosiddetta “inflazione programmata” (pallida ombra dell’inflazione reale).
Ecco perché nel 1992, dopo decenni di propaganda, la scala mobile stessa poté essere abolita. Ciò accadde con l’avallo di CGIL, CISL e UIL, preoccupate di apparire “responsabili“ e di non confliggere con gli interessi del grande capitale. Alla propaganda e ai suoi dogmi — ormai radicati nei cervelli dei nostri acritici connazionali (non esclusi molti docenti) — fecero da megafono le educative TV del benefattore Silvio Berlusconi.
Chissà se, con le ristrettezze ormai prossime (e con un Governo che si rifiuta persino di porvi argini come il salario minimo), la Scala mobile tornerà ad esser desiderata da chi impoverisce a vantaggio di pochi straricchi? Ai posteri (se ne nasceranno ancora) l’ardua sentenza.
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