Ironia ha suscitato, ai primi di settembre, la proposta del neoministro dell’Istruzione di finanziare gli aumenti stipendiali dei docenti con “tasse di scopo” su merendine, bibite gasate e voli aerei. Imposte indirette analoghe esistono in molti Paesi, ove finanziano lo Stato “punendo” i consumatori per dissuaderli dall’uso di cibi e prodotti dannosi. Di pochi giorni fa è la notizia che di merendine si parla nuovamente Palazzo Chigi.
Sia chiaro: di fronte alla miseria con cui paghiamo docenti e lavoratori della Scuola italiana, ben venga qualunque idea. Tuttavia non sarebbe male, per un Ministro che volesse rompere con la politica scolastica degli ultimi 30 anni, prender decisioni più coraggiose.
La paga degli insegnanti non deve dipendere da calcoli economici o politici, da equilibrismi sindacali tra categorie, né dalla variabile indipendente delle voci di bilancio. Quella del docente è una professione troppo importante per la vita di una nazione — soprattutto se democratica — per poterla bistrattare. Di conseguenza, i soldi per aumentare gli stipendi si devono trovare prima di tutti gli altri. Non dopo. Questo grattare il fondo del barile per dare ai docenti una minima percentuale di quanto spetta loro (di diritto e per logica, nonché secondo la Costituzione) è davvero umiliante.
Per aumentare il salario docente occorre anzitutto eliminare gli ostacoli legislativi che lo impediscono. Occorre, insomma, far uscire la Scuola dal campo di vigenza del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, che vincola i salari degli insegnanti all’inflazione programmata. Fingendo di non saperlo, tutti i partiti promettono da un quarto di secolo ai docenti, per averne i voti, un “salario europeo”.
Per trovare i soldi, basterebbe utilizzare almeno alcuni dei miliardi che finanziano i privilegi di altri settori (dotati, evidentemente, di maggior “potere contrattuale” all’interno della macchina statale).
Ad esempio, ai militari (ma anche ai dipendenti di alcuni Enti Locali, a quelli dell’Agenzia delle Entrate, ai carabinieri, ai finanzieri, ai poliziotti e ai vigili del fuoco) sono attualmente concessi («consegnati» secondo la legge), costo zero, chilometri di spiagge di alto pregio in tutta Italia. La gestione degli stabilimenti balneari loro dedicati è considerata avente “fine istituzionale”. Si consegnano loro, senza un centesimo di canone, aree del demanio per attività ricreative e turistiche uguali a quelle offerte da imprenditori privati. L’accesso è permesso persino ad amici di dipendenti delle forze armate. Dal Ministero è pagato pure il soggiorno alle colonie estive riservate ai figli del personale.
Invece ai docenti non viene nemmeno scontato l’accesso a mostre, spettacoli teatrali e cinematografici, concerti, musei comunali; per non parlare dell’acquisto dei libri e dei biglietti per i mezzi pubblici.
Ma c’è di più: forze armate e polizia pagano molti atleti italiani per allenarsi. Con risultati eccellenti senza dubbio, dacché in decine di discipline olimpiche l’Italia conta centinaia di atleti di livello mondiale che vestono una divisa. Tutto ciò però costa. Se proprio dobbiamo investire nello sport, perché non puntare sulla preparazione sportiva nelle scuole? Tanto più che i nove centri sportivi della Polizia e i sei dell’Esercito non sono costo zero. Da questo punto di vista «siamo paragonabili ai vecchi paesi dell’Est, dove gli atleti erano tutti militari»: parola di Pietro Mennea, che un po’ se ne intendeva.
Non è finita qui. Per gli ufficiali superiori è automatica la promozione dirigenti (come per generali e colonnelli), con la paga che ne consegue. Il tutto mentre i docenti s’affannano coi “progetti”per poche decine di euro di FIS.
Dopo 13 anni di servizio, qualsiasi ufficiale viene pagato come colonnello (anche se non è colonnello); dopo 23 anni è pagato come generale di brigata (anche se non lo è). Mentre dal 1995 i docenti si accontentano di gradoni sessennali.
E mentre i docenti vanno in quiescenza verso i 68 anni (con pensioni da fame), per i militari la pensione di vecchiaia inizia 60 anni e 7 mesi; quella d’anzianità matura a 57 anni e 7 mesi con 35 anni di contributi. E gli ufficiali laureati si vedono riconosciuti d’ufficio ben sei anni di laurea.
Inoltre il Rapporto MIL€X 2018 prova che il 60% della spesa militare italiana è destinata al personale (12,8 miliardi annui), mentre in armamenti va solo il 28% (5,9 miliardi). La spropositata spesa per il personale è dovuta alla dissimmetria tra gradi: in altre parole, chi comanda è più numeroso di chi è comandato! Ufficiali e sottufficiali, infatti, sono 87.000 (il 52%); graduati e truppa sono 83.000.
Chiediamoci: perché i Sindacati “maggiormente rappresentativi”, pur consapevoli della situazione, non chiedono di sanare questa sperequazione tra figli e figliastri della pubblica amministrazione? Meglio scontentare i docenti (donne in gran parte) che i militari?
Agli insegnanti non resta che l’amletica scelta: lambiccarsi il cervello per elaborare progetti “acchiappa FIS”? rendersi simpatici al Dirigente Scolastico per ottenere il bonus “premiale”? o riconquistare una propria coscienza politica della situazione, onde tornare a protestare contro l’iniquità che li soffoca?
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