L’accordo fra sindacati e Governo sottoscritto nella notte del 23 aprile ha messo il ministro Bussetti e il presidente Conte nella condizione di dover lavorare per trovare una soluzione, seppure parziale, alla questione retributiva.
L’accordo parla chiaro: con la legge finanziaria del 2020 bisognerà stanziare le risorse per il contratto scuole e reperire anche fondi specifici per il personale docente.
Per quanto attiene i fondi contrattuali la situazione è complessa ma certamente il Governo, già al momento della approvazione della finanziaria di quest’anno aveva messo nel conto che un po’ di soldi andranno stanziati, sia per la scuola sia per gli altri settori del pubblico impiego.
I contratti sottoscritti nel 2018 erano costati complessivamente circa 4 miliardi di euro: per quello del comparto scuola si era speso un miliardo e 300 milioni (in effetti il personale della scuola rappresenta un terzo del totale).
Alla fine a tutti i dipendenti statali era stato riconosciuto un aumento di almeno 85 euro mensili, ma, come si ricorderà, per ottenere questo risultato si era ricorsi allo “stratagemma” di far decorrere l’aumento solo dal mese di marzo 2018 e non da gennaio.
Inoltre per “far bastare” i soldi era stato inserito il cosiddetto “elemento perequativo”, ossia una quota (da pochi euro fino a 30) garantita solo fino alla fine di dicembre 2018.
Quindi se con le prossime due leggi finanziarie il Governo riuscisse a stanziare una somma analoga si potrebbe garantire un ulteriore aumento simile a quello del triennio 2016-18.
Un po’ di soldi sono già stati stanziati con la finanziaria del 2019, ma ne occorrono ancora altri. Sembra che il presidente Conte abbia già avuto assicurazione dal MEF che un paio di miliardi dovrebbero esserci, ma resta il problema di come reperire risorse specifiche per la scuola.
Problema che si complica in quanto i sindacati del pubblico impiego hanno già fatto sapere che non ci stanno affatto ad aumenti differenziati fra i diversi comparti: la scuola, dicono, non può avere un trattamento di favore.
L’unica soluzione, quindi, potrebbe essere quella di utilizzare risorse già disponibili.
Potrebbe insomma tornare d’attualità una idea che da tempo circola anche in ambienti sindacali: destinare a fini contrattuali ciò che resta ancora del bonus premiale (poco più di 200 milioni) e il fondo per la carta del docente (370 milioni); e magari recuperare qualcosa anche dal taglio del finanziamento per l’alternanza scuola lavoro e ridurre un po’ il fondo di istituto. In questo modo si potrebbero mettere insieme altri 7-800 milioni di euro. C’è chi parla di risparmi che potrebbero derivare anche dalla cancellazione delle prove Invalsi ma è bene sapere che si tratterebbe di poche decine di milioni.
Una somma del genere, se venisse suddivisa fra tutti i dipendenti del comparto (1.100.000 circa) si tradurrebbe in un aumento lordo di 55 euro lordi, corrispondenti ad una quarantina di euro netti. Se invece venisse ripartita solamente fra i docenti, dal momento che bonus e carta riguardano appunto i docenti e non tutto il personale, l’aumento potrebbe arrivare anche a 70 euro lordi e 50 netti.
In ogni caso va ricordato che, in mancanza di correzioni significative che però avrebbero un costo ulteriore, gli stipendi intorno ai 26mila euro annui potrebbero essere penalizzati in quanto gli aumenti verrebbero quasi annullati dalla perdita del cosiddetto “bonus Renzi” di 80 euro mensili.
Anzi, a questo punto può anche darsi che i tecnici del MEF stiano già facendo alcune simulazioni per capire quanto si risparmierebbe sul bonus aumentando gli stipendi.
In altre parole, non è da escludere che una parte delle risorse contrattuali possa arrivare proprio dalla riduzione del bonus.
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