È di 1.446 euro lo stipendio medio netto di chi lavora nella scuola pubblica: la stima è contenuta in uno studio – sui salari 2017 e presentato il 20 marzo – realizzato dal Centro Studi Uil, guidato da Luigi Angeletti in collaborazione con Ipazia Ricerche, che ha voluto “mappare” anche il sentiment del mondo del lavoro dipendente attraverso un’indagine a campione ed in vista della creazione di un Osservatorio permanente sulle retribuzioni in Italia. Se si considerano gli 85 euro lordi medi, pari a meno di 50 euro netti, relativi all’aumento incassato lo scorso aprile, dopo nove anni di blocco contrattuale, possiamo dire che la busta paga di chi lavora nella scuola è di poco inferiore ai 1.500 euro.
Una cifra in perfetta linea con quella percepita da un lavoratore dipendente del Belpaese, dove guadagnano mediamente 1.500 euro al mese.
E poco più poco meno di quanto guadagnano in media i dipendenti pubblici: 1.460 euro, ma sempre prima dell’incremento ultimo di 85 euro lordi.
Lo stipendio, poi, grazie a 13esima, 14esima oppure eventuali buoni pasto o benefit, può lievitare fino a 1.600 euro.
Gli stipendi maggiori tra le undici categorie vagliate dall’indagine, sono quelli del settore bancario che registrano 2.000 euro netti di media, mentre l’agroalimentare si caratterizza per buste paga decisamente più leggeri: appena 1.151 euro.
A metà si pongono gli altri nove settori: per i trasporti siamo attorno ai 1.650 euro, poco sopra quello dei metalmeccanici che fanno registrare 1.536 euro medi (quindi più dei dipendenti della scuola). Per il tessile, invece, il guadagno mensile individuale si ferma a 1.500 euro.
Ai lavoratori nei poteri locali vanno mediamente 1.430 euro, agli edili 1.423 euro, al settore delle comunicazioni 1.350 euro e al turismo 1.280 euro.
Per i lavoratori intervistati, le prospettive di carriera e i guadagni sono nella parte bassa della classifica, mentre nella parte alta si colloca la stabilità. Un valore, quest’ultimo, positivo proprio in ragione del fatto che il campione preso a riferimento è composto da lavoratori a cui è applicato un contratto nazionale.
Infatti, i dipendenti interpellati hanno dato un voto pari a 7 alla qualità del proprio impiego, a partire dalla stabilità, premiata con 7,4, per bocciare con un 5,3 le possibili prospettive di carriera e con un 6,4 la voce guadagni e retribuzioni.
Sugli altri campi (clima, autonomia, salute e sicurezza e orari) i voti sono più che sufficienti, ponendosi tra il 6,5 e il 7,2.
L’indagine ha confermato la differenza retributiva tra Nord e Sud, 126 euro, e il gap di genere tra salari maschili e quelli femminili, 150 euro.
Ma è la contrattazione integrativa a fare davvero la vera differenza in termini di euro: tra chi la accorda nel contratto e chi non la attua il gap di categoria piò raggiungere le 250 euro mensili, quindi 3 mila euro annui. Non poco.
In assoluto, si legge nella ricerca della Uil, “ci sono delle evidenti differenze di genere e territoriali: i lavoratori di sesso maschile guadagnano 150 euro in più della controparte femminile, così come i lavoratori residenti nel Nord Italia (1.566 euro) guadagnano di più di quelli del Centro (1.474 euro) e del Mezzogiorno (1.440 euro)”.
La retribuzione mediana cresce ovviamente all’aumentare dell’anzianità del lavoratore e del titolo di studio conseguito anche se la differenza non è molto consistente: 1.342 euro la retribuzione con la licenzia media, 1.533 con il diploma di laurea.
Secondo il segretario generale della Uil, Carmelo Barbagallo, “i dati emersi da questa indagine confermano la fondatezza delle nostre preoccupazioni e la validità delle nostre proposte. Viene resa evidente la differenza retributiva che esiste tra il Nord e il Sud del Paese (126 euro), tra uomini e donne (150 euro) e tra chi fa contrattazione di secondo livello e chi non la fa (250 euro). Il problema vero è che l’alto livello di tassazione falcidia i redditi dei lavoratori dipendenti ed è su questo punto che occorre intervenire”.
Barbagallo è anche intervenuto anche sulla questione del salario minimo: “Fare una legge su questo tema non vuol dire avere la certezza che poi venga applicata. Sono necessari più controlli per estirpare le radici del lavoro nero, da un lato, e serve più contrattazione, dall’altro”.
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