Sta facendo discutere il divieto, in Commissione Cultura della Camera, del cellulare in classe. A prima vista un’ottima iniziativa, a ben vedere, considerate le deroghe già previste per usi condivisi, la scoperta dell’acqua calda.
Il contesto è la reintroduzione dell’educazione civica. Vedremo la proposta che ne uscirà, perché, al di là delle buone intenzioni, si tratterà di trovare una sintesi all’interno di un quadro didattico, soprattutto per le superiori, popolato da troppe materie.
Vietare il cellulare, dunque.
Ma è paradossale, nel suo insieme, quello che sta succedendo. Da un lato i nostri ragazzi, nati, possiamo dire, col cellulare sempre in mano. Dall’altro, quando sono a scuola, entrano in un contesto proibizionista: se trovati con i cellulari in classe, subito sequestrati e sanzionati con note. Quasi menomati di una parte di sé, dati i tempi.
Può la scuola, cioè l’ambiente educativo per eccellenza, dopo la famiglia, diventare il luogo di questa menomazione di sé? Non solo: se le famiglie sono sempre più in difficoltà su questo versante, come può riuscire la scuola a convertire questa prassi esistenziale dei loro figli in una questione educativa, di crescita di coscienza, di consapevolezza, quindi di libertà?
I Regolamenti di Istituto, oltre a indicazioni ministeriali, dicono già, come è noto, che non si devono usare i telefonini in classe. Forse sarebbe meglio chiarire, nel concreto, la distinzione tra usare ed abusare.
Se, cioè, i nostri ragazzi sono nati all’interno di un mondo, diverso dai loro genitori come dai loro docenti, che non ha chiara la distinzione, per l’uso delle tecnologie, tra mezzo e fine (una distinzione non chiara nemmeno nei corsi e nei testi di tecnologia didattica), quale migliore luogo, come la scuola, per aiutarli a comprenderlo, quel limite, tra mezzo e fine?
Diversi sono gli episodi di genitori che denunciano la scuola di sequestro del cellulare del figlio. Tutto questo ci dice che che non basta il proibizionismo. Come sempre.
La risposta è semplice e difficile al tempo stesso: educare all’uso intelligente, anche in classe, del cellulare.
Per cui, nel percorso didattico un docente, nelle mie scuole, può concordare con i ragazzi tempi e modalità, se il caso e se il tema lo richiede, di un uso didattico finalizzato e limitato. Cioè un uso intelligente, secondo un obiettivo ed entro tempi prefissati.
Anche in classe, dunque, c’è un tempo per tutto. Compito della scuola è educare ad un tempo intelligente, cioè capace di tradursi in domande di senso e di significato, senza nemmeno subire gli strumenti oggi offerti dalla tecnologia, i quali non vanno né esaltati né demonizzati.
Lo ripeto: né demonizzati, né esaltati, come rischiano di fare anche alcuni docenti e presidi.
Perché il cuore della scuola non è l’abilitazione ad un uso, ma ad uso critico, intelligente, capace di cogliere al volo valore e limiti anche delle tecnologie. È il valore aggiunto, lo possiamo dire, della scuola italiana, rispetto ai modelli scolastici delle altre scuole dei Paesi avanzati.
C’è lo ricordano di continuo i nostri ragazzi che si confrontano con i loro coetanei nelle più svariate occasioni. Converrebbe non dimenticare mai questo valore aggiunto.
In sintesi, è sempre bene diffidare dai facili odierni profeti anche del tecnologismo fine a se stesso, come se una macchina potesse sostituirsi al flusso delle nostre coscienze. Stupida illusione.