Sono passati 5 anni dal giorno in cui decisi di sostenere il test in Scienze della formazione Primaria presso l’Università di Milano Bicocca per poter conseguire l’abilitazione all’insegnamento.
Dopo una laurea magistrale in campo economico, un master part-time al Sole 24 Ore e qualche supplenza in ambito scolastico, compresi davvero quale fosse la professione che avrei voluto intraprendere, con quei bambini/ragazzi destinati a diventare i futuri cittadini del nostro Paese.
Fra questi c’è mia figlia Aurora la quale, il prossimo 10 settembre, inizierà quella stessa scuola primaria dove vorrei insegnare e che, quando affrontai quel test, aveva appena un anno.
Ricordo ancora la felicità per aver superato soltanto la prima delle numerose prove che avrei dovuto sostenere di lì a poco.
Aurora era ancora piccola per capire quello che avrebbe dovuto vivere insieme a me e al suo papà, mentre io ero convinta che un giorno tutto quel sacrificio avrebbe dato i suoi frutti e che la formazione e il merito non sarebbero rimasti solo bei propositi teorici, ma avrebbero trovato pieno riscontro in una società migliore, destinata ai nostri stessi figli.
Pensammo che, pur avendo una bambina piccola, oltre a studiare avrei dovuto lavorare di tanto in tanto in quanto la retta dell’asilo nido di Aurora costava quasi 500 euro al mese e avevamo anche un mutuo di altri 400 euro, oltre alle spese di gestione ordinaria, e dunque intuimmo subito che non sarebbe stato affatto facile intraprendere una strada così lunga.
D’altra parte, non avrei potuto adempiere agli obblighi legati alla frequenza accademica senza iscrivere mia figlia al nido, dal momento che i nonni sono tutt’ora impegnati al lavoro e di lì a due anni mio marito sarebbe partito per lavorare fuori regione (talvolta anche all’estero) con lunghe trasferte lontano da casa.
Guardai mia figlia e mio marito e capii che quella era la strada da perseguire con determinazione e che un giorno avrei potuto lasciare ad Aurora un’eredità preziosa che l’avrebbe accompagnata per sempre: l’esempio che la cultura conta davvero in questo Paese.
Se guardo indietro vedo una giovane donna, madre e moglie, che si è lanciata con coraggio verso il proprio futuro, carica di speranza e di voglia di mettersi in gioco con professionalità e competenze da spendere.
Tuttavia, la strada si è rivelata ben presto in salita: laboratori obbligatori impegnativi hanno accompagnato quasi ogni esame della nostra carriera, spesso di sabato dalle 9 alle 18; non c’era capodanno o festività che potesse reggere il proprio status di spensieratezza perché, oltre alle prove intermedie dei corsi frequentati e agli esami veri e propri, c’erano sempre report e relazioni dettagliate da presentare, entro scadenze prestabilite, con riferimento al proprio percorso di tirocinio a scuola che non era certo solo osservativo, ma prevedeva interventi compartecipati in classe e veri e propri percorsi didattici progettati e sperimentati in prima persona.
Le giornate sono state scandite da un ritmo vorticoso, e a tratti alienante, completamente differente rispetto a quello vissuto da altri studenti universitari; i giorni venivano letteralmente assorbiti da vincoli stringenti e da una formazione continua che, se da una parte ci ha arricchito molto insegnandoci il prezioso valore del lavoro in team anche per affrontare i singoli esami, dall’altra ci ha dotati alla lunga di un particolare senso di resilienza che certamente ci tornerà molto utile a scuola, ma che ha comportato una certa dose di fatica e di tensione.
Non sono mancate situazioni al limite del buon senso, fonti di ulteriore tensione: ricordo ancora quando, a fine 2015, ho dovuto affrontare, nel giro di dieci giorni, due operazioni e il mio unico pensiero prima di scendere in sala operatoria era avvisare l’ufficio laboratori (e la supervisora di tirocinio) perché per la frequenza dei laboratori non era consentito stare male per più di 4 ore senza conseguenze; altrimenti non sarebbe stato possibile sostenere il relativo esame sino all’anno successivo.
Ricordo ancora quando sono andata al laboratorio di pedagogia speciale anziché partecipare al funerale di una mia carissima amica ed ex compagna di università, scomparsa improvvisamente a soli 31 anni per emorragia cerebrale; non fu possibile contattare tempestivamente l’ufficio preposto per cercare un cambio turno e dovetti accettare di andare a salutarla il giorno dopo al cimitero.
Per quanto concerne il lavoro, ho dovuto lavorare pochissimo per poter rispettare regolarmente gli impegni accademici e quelli relativi al tirocinio formativo. Pur scegliendo incarichi in qualità di docente nella scuola, occorreva presentare il relativo contratto di lavoro fino al 30 giugno entro una scadenza molto ristretta a inizio anno accademico, altrimenti non veniva riconosciuto neppure quel 20% di ore che spettava a chi già insegnava, seppur precario/a.
Inoltre sino all’anno accademico 2016/2017 non era possibile svolgere il tirocinio nella stessa scuola e/o Istituto Comprensivo nel quale lavoravamo, rendendo spesso le due attività incompatibili tra loro, anziché virtuosamente sinergiche.
Mia figlia ha vissuto tutto ciò insieme a me e a mio marito e l’intera famiglia ha subito i contraccolpi delle difficoltà – anche economiche – di conciliare ogni aspetto di questa complicata e insolita vita che, in realtà, in tale corso di laurea, è più frequente di quanto si possa credere.
Nel frattempo, a soli due anni dal traguardo relativo al conseguimento del titolo di laurea, ho assistito, insieme ai compagni di università, al paradosso di vedere tale titolo svalutato in graduatoria rispetto a chi possedeva il diploma magistrale ante 2001-2002, a causa dei ricorsi sindacali intrapresi da costoro.
Dopo 14 anni dall’istituzione di questo corso di laurea, nel 2013 è stato riconosciuto il valore abilitante al diploma conseguito entro l’anno 2001-2002 con una sostanziale equiparazione dei due titoli.
Tuttavia, giungere al paradosso di vedere insegnanti improvvisati che per il solo fatto di possedere questo diploma, ci precedevano nel conferimento degli incarichi annuali (e del ruolo) pur avendo svolto per anni tutt’altra professione, mi ha spinta ad interrogarmi profondamente sulla strada intrapresa gettandomi nello sconforto.
Fortunatamente, proprio la capacità di creare reti tra colleghi e quel senso di resilienza sviluppato nel corso degli studi mi hanno aiutata a guardare ancora al futuro con fiducia e speranza, confidando che la recente sentenza dell’Adunanza Plenaria venga rispettata e che vengano difesi i principi del merito e dell’equità all’interno della scuola italiana.
Una mamma facente parte del Coordinamento Nazionale Scienze della Formazione Primaria