Anche il docente e scrittore Enrico Galiano, a Il Libraio, ha detto la sua in merito alla strage di Paderno Dugnano, luogo in cui un ragazzo di diciassette anni ha sterminato la propria famiglia, composta da padre, madre e fratellino di dodici anni.
Galiano ha riflettuto sulle parole dette dal giovanissimo assassino: “C’è una frase, però. Una frase. L’ha detta durante il suo ultimo interrogatorio: ‘Non pensavo che avrebbero sofferto così tanto’. Noi non possiamo sapere che cosa è successo dentro questo ragazzo. Anche se lo conoscessimo da una vita, sarebbe impossibile determinare cosa sia scattato quella notte in lui”.
Ecco la sua riflessione: “Queste sue parole, però, mi hanno ricordato una vecchia storia, una vecchia terribile storia dei primi anni duemila, quella dei ragazzi che gettavano i sassi dal cavalcavia. Ve li ricordate? In quei giorni il professor Galimberti sì che riuscì a trovare le parole: disse che questo succedeva perché, ‘per quei ragazzi, quelle erano come macchine vuote’. Forse è questa, una delle chiavi possibili, il filo che lega quegli eventi all’oggi. Forse anche lui a un certo punto deve aver pensato che i corpi dei suoi famigliari fossero corpi vuoti. Bambole di pezza, come ha ben descritto lo psicologo Alberto Pellai.
Non sono uno psicologo, sono solo uno scrittore e un insegnante. Per cui non posso parlare altro che di sensazioni, di percezioni, di sguardi, di silenzi. Non scrivo per dare risposte, ma solo per suggerire domande. E una di queste è: perché questo senso di vuoto? Cosa sta succedendo ai nostri ragazzi?
Come mai abbiamo adolescenti che si tagliano le braccia, e che mentre lo fanno provano un’incredibile vitalità, salvo poi pentirsene subito dopo? Perché abbiamo ragazze e ragazzi che smettono di mangiare, e festeggiano ogni grammo perso come una conquista, anche se così mettono a rischio la loro stessa vita?
La mia sensazione – mi sbaglierò, spero tanto di sbagliarmi – è che siamo proprio noi, i loro genitori, che li teniamo a distanza dalla vita. Che li allontaniamo da ogni paura, da ogni pericolo, da ogni fallimento: cioè proprio da tutto ciò che è essenziale affinché la vita si compia.
Non lo facciamo per cattiveria, certo, o perché siamo improvvisamente impazziti: però è vero che troppo spesso mettiamo la nostra tranquillità al primo posto. Il saperli al sicuro è per noi sinonimo di quieto vivere. Ci fa stare meglio. Ci fa sentire bravi genitori. Ma un genitore veramente bravo sa che vivere quasi mai è quiete. Specie a diciassette anni, vivere è inquietudine.
Nessuno, credo, potrà mai trovare i perché di una strage così insensata. Ma forse questa orribile storia ci può aiutare, in qualche modo, a cambiare un po’ punto di vista quando guardiamo i nostri figli. Non teniamoli distanti dalla vita. Non preserviamoli da ogni dolore, da ogni caduta, da ogni noia. Chiediamoci sempre se quando li proteggiamo dalle insidie della vita lo stiamo facendo per loro, o per noi.
Facciamo loro il dono più grande, anche se ci fa tanta paura: lasciamo che la vita accada. Solo così, forse, si può tenere quel vuoto a distanza”.
Il ragazzino tra tre settimane compirà diciott’anni. Il giovane avrebbe detto ai giudici di sentirsi “oppresso” dalla famiglia e per liberarsi da questa sensazione l’avrebbe eliminata. Il 17enne, che frequenta il liceo scientifico, sarebbe un genio della matematica ma, come riporta La Repubblica, era uscito con un debito proprio in matematica. E alla domanda, ieri, degli investigatori, se questo può aver avuto un peso nella sua deriva omicida, lui ha scosso la testa.
Il ragazzo in passato ha partecipato alle finali nazionali dei giochi di matematica. “Il mio Einstein”, lo chiamava la madre. “Frequentava l’ultimo anno di liceo, è un ragazzo tranquillo, sveglio, a posto. Fa sport. L’ultima persona da cui ti aspetti che possa fare del male” lo descrive un amico. Anche gli insegnanti dei ragazzi dicono che erano entrambi tranquillissimi. La scuola al momento cerca di serbare il silenzio.
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