“I giudizi espressi dalla commissione per gli esami di maturità sono connotati da discrezionalità tecnica. Sicché sono inammissibili ed in ogni caso infondate le censure che mirano a sindacare nel merito l’esito delle prove sostenute da un candidato, le quali viceversa non sono assoggettabili a tale verifica in assenza di macroscopici vizi logici e di procedimento, i quali nella specie non sono ravvisabili”.
Così il Consiglio di Stato ha dato torto alla studentessa di Teggiano, in provincia di Salerno che aveva fatto ricorso contro il voto alla maturità ritenuto “non corretto”.
Ammessa con la media di 8,6 all’esame, nell’anno scolastico 2008-2009, con i crediti ottenuti durante il triennio ottenne “solo” 93/100. Un risultato non ritenuto corretto dalla ragazza che ha deciso di rivolgersi alla giustizia amministrativa.
Il Tar nel 2011 accolse il ricorso limitatamente alla rettifica del voto attribuito che vide il punteggio della prova orale salire da 26 a 27. Non soddisfatta la ragazza ha deciso di rivolgersi al Consiglio di Stato. Una scelta, però, che non ha pagato, visto che è stata condannata pagare 4mila euro di spese processuali in favore del Miur.
Sempre più frequenti, negli ultimi anni, il ricorso alla magistratura. Il voto così non lo decide il professore, ma il magistrato. Che può trasformare il cinque in pagella in una sufficienza. Non solo: la punizione a un bullo può costare il carcere all’insegnante o una caduta dalle scale di un bambino si trasforma in un contenzioso legale decennale. Protagonisti sono soprattutto i genitori, che fanno scudo ai loro figli con le carte bollate intasando i tribunali di cause civili e penali.
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