Una studentessa di Forlì perde la vita gettandosi dal tetto del suo liceo, si apre il processo ai genitori, perché l’avrebbero istigata, ma il giudice “riprende” anche i docenti della ragazza: non avrebbero fatto abbastanza per prevenire gli intenti suicidi della liceale. Di fatto, vengono “bacchettati”, perchè non sarebbero accorti di niente, trascurando i segnali che mandava probabilmente la giovane attraverso le parole, la postura e i comportamenti.
La vicenda ha origine nel 2014, quando la ragazza si lascia andare dal punto più alto della scuola. Partono le indagini e da lì a poco i genitori della giovane, si chiamava Rosita, diventano imputati per maltrattamenti. Il padre si deve addirittura difendere dall’accusa di istigazione al suicidio.
“La Procura forlivese – scrive l’Ansa – li ha portati a giudizio accusandoli di aver isolato la ragazzina, di averla umiliata, facendola vivere in un clima di costante deprivazione affettiva e di solitudine, di totale svalutazione della personalità, affermando e dimostrandole che era una persona indegna di qualsiasi tipo di fiducia. E quando lei non ne poté più e minacciò di farla finita, la sfidarono ad uccidersi, dicendole che così avrebbe risolto i suoi problemi e anche i loro”.
Al processo, però, testimoniano anche alcuni insegnanti della giovane. Spiegano come sono andate le cose, sino al terribile epilogo.
Nell’udienza del primo febbraio, però, il presidente della Corte di assise si lascia inaspettatamente andare ad una sorta di reprimenda, perché, a suo dire, quegli insegnanti potevano fare di più per interessarsi alla ragazza. E, forse, anche prevenirne il suicidio: “Da voi insegnanti – ha detto il togato – ci si aspetta di più. È emerso il disagio di Rosita e voi dite che non vi siete accorti di niente. Se aspettate segni chiari e palesi, allora queste cose continueranno”.
Gli insegnanti, tuttavia, non ci stanno e rispondono con una lettera sottoscritta da 200 colleghi: una settantina di persone sono della scuola, ma a sottoscriverla ci sono anche altri 150 colleghi di Forlì e dintorni.
Nella missiva si spiega che i docenti non ci stanno a essere additati come responsabili e che in un caso del genere non è giusto cercare un facile capro espiatorio.
“La sensazione più diffusa – si legge nel testo – è che siamo isolati di fronte a tutto quanto la società non sa gestire e che trovare un facile capro espiatorio per ogni situazione non giovi davvero a nessuno”.
“Sembra che a volte si pretenda che possediamo i ‘superpoteri’ per ipotizzare e capire oltre la realtà umanamente percettibile”. I docenti si sentono “socialmente delegittimati”. “Certamente ci sentiamo isolati nel dolore (sì, lo proviamo ancora) per aver perso una splendida giovane mente che amava molto studiare con noi”.
È difficile, anzi improponibile, entrare nel merito dell’accaduto. Probabilmente, il giudice avrà avuto le sue ragioni per lanciare la sua reprimenda verso i docenti. In generale, però, non è facile collegare il disagio di un giovane con epiloghi così drammatici.
Rimane il fatto che la scuola ha il dovere di segnalare agli organi competenti le situazioni personali a rischio, soprattutto laddove l’origine del malessere è probabilmente insiti nella sua famiglia.
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