Chi non si è mai sentito dire a scuola “mi fai copiare?”. Come si fa a dire no? Non tutti, però, la pensano così. E hanno tutto il diritto di opporsi. Quello che non può accadere è che il diniego faccia scattare il bullismo, come è accaduto a Cesena dove, appena fuori da scuola, una studentessa si è vista aggredire dalle tre-quattro compagne, mentre una di loro riprendeva tutto con lo smartphone.
Come fa pensare quanto accaduto a Bari, dove un docente di diritto ed economia, in servizio in un istituto tecnico, subito dopo essersi seduto in cattedra per svolgere la lezione, si è visto sparare da un allievo alcuni pallini di plastica. I protagonisti della “bravati” sono stati due compagni di classe: uno ha portato la pistola a scuola, l’altro l’ha utilizzata contro il prof.
L’insegnante non ha dubbi: anche questo è bullismo: “’ti faccio vedere che sono più forte di te, ti posso mettere i piedi in testa e faccio ridere la classe’, questo è il significato”, ha commentato il docente in un’intervista.
Poi ha tenuto a fare sapere che non denuncerà gli studenti: non voglio “rovinarli”, ma chiede di adottare una punizione severa dal punto di vista scolastico: “sono a favore dell’espulsione e servono provvedimenti serissimi o le scuole le possiamo chiudere”.
Sicuramente le scuole di Cesena e di Bari cercheranno di capire cosa c’è dietro quanto accaduto. E prenderanno dei seri provvedimenti. Ma qui sta il punto: siamo sicuri che l’espulsione da scuola o la sospensione dalle lezioni possano bastare per recuperare i giovani autori di questi gravi episodi? La ripetizione dell’anno, conseguenza del 5 in condotta, o il debito formativo con contestuale studio dei valori di cittadinanza (per chi avrà a giugno 6 in condotta), sono sufficienti? Probabilmente rappresentano una risposta importante. Ma non risolutiva.
Allontanare i giovani violenti da scuola, su questo siamo d’accordo col ministro Giuseppe Valditara, non è di certo la soluzione del problema: una scuola, per dirla alla don Lorenzo Milani, il cui pensiero rimane più che mai attuale, non deve mai perdere i suoi alunni altrimenti non è più scuola. Allora, ben vengano le sospensioni che obbligano lo studente, oltre i due giorni, partecipare ad attività di ‘cittadinanza solidale’, così come previsto dal disegno di legge ordinario che nei prossimi mesi dovrebbe vedere la luce.
Sarebbe bene, tuttavia, che l’esperienza di re-inserimento di questi ragazzi non si limiti a due settimane di volontariato. Il giovane dovrebbe essere coinvolto in progetti attivi, in attività che lo facciano sentire protagonista, in attività teorico-pratiche che con il tempo lo portino a rielaborare i suoi comportamenti e a rendersi conto del male che fanno a lui e agli altri. Un recupero che in diversi casi necessita anche degli interventi da parte dello psicologo.
È un percorso che dovrebbe coinvolgere, quindi, le istituzioni (la scuola, certamente, ma anche i servizi sociali, le Asl, il terzo settore), diversi professionisti (ad esempio gli psicologi, i medici, i sociologi) e testimoni di vita (artigiani, imprenditori, anziani, ecc.).
Pensare che la sospensione dalle lezioni, benché trasformata in importanti esperienze di volontariato, possa bastare rischia di rimanere una pia illusione.
Facciamo allora entrare stabilmente nelle scuole queste figure, facciamole stare accanto ai ragazzi, mettiamo in contatto queste persone con i docenti e coi presidi, coinvolgiamo i genitori (che sempre più spesso “remano contro”).
Solo così potremo pensare di avere messo in campo il massimo delle energie per recuperare i giovani “bulli”. Ed evitare che certi atti di violenza, anche solo psicologica o che viaggiano sul web, diventino la norma, anziché l’eccezione da condannare.
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