Ultimamente, forse perché stordito e rattristato, talvolta impotente, quando arrivo all’ingresso della mia Scuola, un attimo prima di solcare il portone mi vengono in mente le parole di W. Whitman, che mi piacerebbe talvolta essere recitate, se non gridate, urlate, prima di ogni cominciamento, perché ognuno si fermi, un attimo appena, arrestando la corsa, arrestando il refrain didattico, capovolgendo la lezione, la classe, il laboratorio: come una finestra aperta, e l’aria nuova a spostare quella cattiva dell’ambiente “chiuso”.
E destare l’apatia dell’abitudine, mista alla noia, che accompagna e caratterizza il feriale dei volti dei nostri studenti: soldatini che ripetono e ripetono e ripetono ogni gesto, ogni sedersi, ogni distrazione, attendendo la fine della lezione e del giorno stesso di scuola. E dare una nuova tinta al colore dei volti stanchi già dal primo minuto, ancor prima della lezione, alla prima ora del big bang didattico, dei miei colleghi. Volti che soltanto il senso etico induce a strappare un quasi finto od obbligato sorriso, che cela la denuncia di una aspettativa di qualcosa di cui però si è consci il tardare. E così, puntuali, ogni giorno. E ritrovarmi in cerchio con tutti: studenti, colleghi, dirigenti, personale Ata, il mondo scolastico: marea di persone umane, e incontrare i loro occhi.
E discreto recitare con loro e per loro quelle parole in poesia, e avvertire il brivido del loro soffio che tradisce una emozione quasi a sussurrare: io sono, io esisto. E rapirci, rapirsi, regalandoci, tutti, la attenzione su ognuno, su noi, e ripossedere il senso, il valore, la cultura, la bellezza, la poesia, il noi, l’ognuno di noi, malgrado tutto, malgrado questo tempo nostro così stordente, così pandemico, così racchiuso nel’IO, per paure che ci hanno indotto, come inoculate nel cervello, sulla pelle della nostra ferialità. Mentre ogni computer resta spento, e con essi ogni strumento, financo i cellulari. E tutto è silenzio quale ascolto del noi, dell’io, per rimembrare che siamo fatti di ali, in grado di condurci oltre i numeri, le pagine consunte di storia o di letteratura, e comprendere che siamo noi poesia, storia, bellezza. E così lanciare i nostri ragazzi al loro futuro non dimenticando di stare attenti che la vita è in quel loro essere adolescenti, e assorbire tutto il nettare della loro adolescenza: la bellezza di incontrarsi tra i banchi e i corridoi della Scuola, e sgattaiolare su per le vie e le piazze della città o del paesino perché l’incontro non sia più o soltanto virtuale, ma emozione vibrazione odore e sapore di vita, di vivo, di vero.
Quando arrivo all’ingresso, un attimo prima di solcare il portone, vorrei ci fosse un inchino per la riscoperta o ri-consapevolezza che la vita, il mondo, comunque resta il soffio della Vita che in essa VIVE: respirare l’aria, parlare, passeggiare, afferrare qualcosa con la mano! Essere questo incredibile Dio che io sono! Che noi, ognuno di noi, È.
Mario Santoro
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