Abbiamo ormai oltre un anno di esperienza di didattica a distanza e di smartworking, come reagisce il cervello a questo tipo di attività?
Molte persone hanno notato che alla fine di una giornata lavorativa trascorsa su Zoom, Teams o qualsiasi altra piattaforma virtuale, si sentono stanche, senza energia nonostante non abbiamo fatto alcun movimento fisico.
Una sensazione comune anche a studenti ed insegnanti, un fenomeno molto diffuso motivo per cui è stato coniato un nuovo termine inglese per definirlo: “Zoom fatigue”, ovvero affaticamento da Zoom.
Uno studio pubblicato dalla rivista Cyberpsychology, Behavior and Social Networking, condotto dai ricercatori Riva, Wiederhold e Mantovani, ha esplorato più a fondo questo tema usando la neuroscienza per provare a spiegare il motivo per cui lo smart working e la didattica a distanza cambino il modo in cui il nostro cervello vive e interpreta le esperienze di lavoro e apprendimento.
Uno dei motivi di questa sensazione di stanchezza è legato, sembra, al maggior sforzo cognitivo richiesto al cervello per gestire le videochiamate perché senza il supporto del linguaggio non verbale molto importante in una qualsiasi comunicazione, il cervello si deve impegnare di più per poter trasmettere alle altre persone quello che si vuole dire.
Come riportato da TPI una delle ultime scoperte in fatto di neuroscienza evidenzia come il senso dello spazio e la memoria sono strettamente collegato tra di loro.
In sostanza esiste una classe di neuroni chiamati GPS cosi come il navigatore della macchina o del cellulare che ci consentono di orientarci nello spazio. Tale scoperta è giusto ricordare che valse il premio Nobel per la medicina ai coniugi Moser nel 2014.
Gli stessi neuroni hanno anche la funzione importante di fissare i ricordi cosi come funziona per le mappe sul navigatore. I neuroni cambiano la loro attività a seconda della memoria segnalando il luogo del ricordo come tanti punti luminosi di una mappa associati ad esempio ad eventi importanti o luoghi visitati.
Il nostro cervello, quindi, registra in maniera costante le informazioni e i ricordi dei fatti avvenuti in un certo luogo come memoria autobiografica e questo svolge un ruolo importante della nostra identità personale che cambia con l’esperienza vissuta.
Il cervello quindi associa il lavoro, lo studio anche al luogo dove abitualmente stiamo per assolvere tale attività, associando attività allo spazio fisico dove questo avviene.
Per questo motivo quando siamo su una piattaforma virtuale il cervello non riesce ad associare lo spazio con l’attività svolta, in sostanza il meccanismo che registra la nostra memoria in relazione allo spazio non viene attivato e quindi tutte le esperienze fatte in questa modalità “virtuale” non vengono memorizzate dal cervello come memoria autobiografico e ogni volta che le ripetiamo lo stesso cervello deve ovviamente svolgere una fatica superiore.
Una esperienza definita “senza luogo “o “placelessness” in cui i neuroni GPS rimangono inattivi.
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