Sarebbe stato travisato il senso della lettera inviata al Governo e al Parlamento da 600 docenti universitari, accademici della Crusca, storici, filosofi, sociologi e economisti.
“La lettera” in cui si denunciava il fatto che troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente “non è un atto di accusa verso gli insegnanti della scuola primaria e della media, come chiunque può verificare. È invece un richiamo alle responsabilità di orientamento, di sollecitazione e di controllo che competono al Ministero della Pubblica istruzione”.
La sottolineatura è di Giorgio Ragazzini, che il 10 febbraio ha parlato a nome del Gruppo di Firenze, di cui fanno parte i 673 docenti universitari.
“Vi si dice – sottolinea Ragazzini – che ‘il governo del sistema scolastico non reagisce in modo appropriato’ alla gravità della situazione; che ‘il tema della correttezza ortografica e grammaticale è stato a lungo svalutato sul piano didattico più o meno da tutti i governi’, con il risultato che non abbiamo ‘una scuola davvero esigente nel controllo degli apprendimenti’, senza di che ‘né il generoso impegno di tanti validissimi insegnanti’ e neppure un aggiornamento qualificato sono sufficienti”.
Ne consegue, continua Ragazzini, che “di accuse ai colleghi delle elementari non c’è quindi traccia; e non è un caso che molti consensi li abbiamo registrati anche fra i docenti del primo ciclo”.
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“Per alcuni, poi – prosegue il portavoce del Gruppo di Firenze -, i seicento docenti sarebbero fautori di un ritorno alla scuola del passato, forse per l’evocazione di una scuola ‘più esigente’ o per l’accenno ad alcuni tipi di esercizi e di verifiche. Non c’è alcuna nostalgia per il tempo che fu, ma la convinzione che una scuola più rigorosa è nell’interesse soprattutto dei ragazzi che partono più svantaggiati socialmente e culturalmente“.
“Infine – conclude Ragazzini – ci si obbietta che le Indicazioni nazionali (i ‘programmi’ di un tempo) già dicono, ci si obbietta, quello che chiede la lettera. Sì e no: c’è infatti il grave limite di presentarsi come un elenco di molteplici, forse troppi obbiettivi, senza che sia chiaro fin dove si può spingere l’autonomia della ‘comunità professionale’ che ‘è chiamata ad assumere e a contestualizzare’ tali indicazioni e senza indicare le priorità imprescindibili”.
E ancora: “in altre parole, fino a che punto un docente è libero di non tenerne conto nelle sue scelte? Per fare un esempio: è lecito saltare a piè pari il Rinascimento o la geografia dell’Italia? Infine, se ci sono dei traguardi da raggiungere, non si dovrebbe poi verificare se e in che misura questo è accaduto?”.
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