Lo scorso 24 novembre l’ennesima aggressione contro un docente, questa volta da parte di uno studente. Anche questa è violenza, segno di una società malata che non riconosce più il principio di autorità, ma neppure il rispetto per prossimo.
Negli ultimi giorni sono almeno due gli episodi gravi segnalati nelle cronache, uno a Napoli, dove uno studente 15enne ha sferrato un pugno nel petto alla sua docente, e uno a Vicenza, dove una professoressa ha riportato la frattura di una mano che sarebbe stata chiusa in una porta da uno studente dopo un diverbio.
Il fenomeno
L’esito del monitoraggio, svolto nello scorso anno scolastico dal Ministero, riferisce di cinque episodi di violenza al mese, nella metà dei quali sono coinvolti i genitori. Questo numero però si basa sulle segnalazioni fatte dalle vittime che si presentano nei pronto soccorso. I casi in realtà sono molto più frequenti, praticamente quotidiani. Come riportato da un’indagine condotta da Skuola.net, il 70% degli episodi di violenza sono sul piano verbale, con insulti e invettive, il 18% sono aggressioni con contatto fisico o lancio di oggetti e il 12% con violenze sia fisiche che verbali.
La situazione ordinaria è così mortificante che solo nel 15% dei casi il docente si rivolge alla presidenza, nella consapevolezza che, in generale, la tendenza è a minimizzare. I genitori poi si schierano in maggioranza dalla parte dei figli. I più pertanto subiscono in silenzio, rassegnati, e al massimo scrivono una nota sul registro.
I provvedimenti di Valditara per contrastare la violenza contro i prof
A suo tempo il ministro Valditara ha dimostrato di volere impegnarsi a combattere il fenomeno, difendendo il ruolo dei docenti, che esercitano un compito educativo sempre più difficile. Le linee d’azione sono state su due piani: la possibilità di richiedere l’Avvocatura generale dello Stato per assicurare la rappresentanza e la difesa del personale della scuola, e la revisione della valutazione del comportamento per gli studenti.
Il Ddl sul voto di condotta è attualmente all’esame del Senato, ma l’iter di approvazione non si prospetta breve. Lo scopo dichiarato è “di ripristinare la cultura del rispetto, di affermare l’autorevolezza dei docenti”. L’intenzione è di far pesare maggiormente sul curricolo scolastico le sanzioni disciplinari riportate, affinché non succedano più episodi scandalosi come quello di Rovigo di una docente colpita con pallini sparati da una pistola ad aria compressa e con l’alunno aggressore promosso col 9 in condotta. Il ministro ritiene necessario anche “un grande patto di corresponsabilità” che coinvolga le famiglie.
Educare al rispetto e alle relazioni: se ne parla da anni con progetti fotocopia poco efficaci
Si fa un gran parlare del progetto “Educazione alle relazioni”, appena presentato dai ministri Valditara (Istruzione), Roccella (Famiglia) e Sangiuliano (Cultura), in occasione della giornata ONU contro la violenza sulle donne. L’obiettivo è la realizzazione di “progetti, percorsi educativi, attività pluridisciplinari e metodologie laboratoriali” destinati, in particolare, agli studenti delle secondarie di secondo grado, coinvolgendo gli studenti, i docenti e le associazioni delle famiglie.
Il primo a richiamare gli analoghi progetti precedenti è stato lo stesso Valditara, ponendosi in perfetta linea di continuità con la Buona Scuola di Renzi, alla faccia di chi temeva chissà quali rivoluzioni culturali dal ministero chiamato del “Merito”.
Nel 2017, l’allora ministra Fedeli annunciava “particolarmente orgogliosa” un grande “Piano nazionale per l’educazione al rispetto”, “uno strumento culturale importantissimo” con le stesse finalità: contrastare violenze, discriminazioni e comportamenti aggressivi di ogni genere. Si prevedeva, fra l’altro, un “nuovo patto di corresponsabilità educativa” per rinsaldare il rapporto tra la scuola e la famiglia.
Quasi le stesse parole di Valditara. I due Piani si assomigliano in tutto: campo d’azione, obiettivi, metodi, mezzi. Perfino il lessico è lo stesso. E finanche il tirare in ballo i “testimonial” del mondo dello sport, della cultura e dello spettacolo, perfino gli “influencer”, da cui ci si aspetta che passino empaticamente i messaggi ai giovani.
Perché i vari Piani ministeriali non funzionano?
I Piani ministeriali vecchi e nuovi, benché strutturati e finanziati, non sembrano essere particolarmente efficaci, tanto contro la violenza di genere quanto contro l’aggressività dei ragazzi che esplode repentinamente. Pur facendo la sua parte, la scuola, non è in grado di arginare la deriva di una società a cui l’educazione dei giovani è sfuggita di mano. Forse servirebbe un approccio globale e non una aggiunta di ore con qualche esperto.
Sulla debacle educativa le analisi sociologiche incolpano in primis la famiglia, che ha perso il suo ruolo, ma anche i lunghi lockdown nel periodo Covid, che hanno fatto crescere il disagio psicologico in modo esponenziale.
Oggi sono soprattutto i social e i meccanismi che li governano (polarizzazione, hate speech, shit storm) a influenzare i giovani in maniera ben più incisiva e pervasiva di un Piano ministeriale di educazione al rispetto. Ad aggravare il fenomeno della violenza nelle scuole è proprio la video-mania con conseguente spettacolarizzazione, protagonismo, diffusione virale dei contenuti, emulazione e comportamento omertoso, perché gli altri studenti assistono da spettatori o tifano per l’aggressore. Non parliamo dei genitori che solo nel 22% dei casi si schierano dalla parte dell’insegnante.
Lo psichiatra Paolo Crepet, intervenuto a ripetizione su vari media, è molto critico sull’“oretta di educazione ai sentimenti” perché “l’educazione è la cosa che è più in crisi nella nostra cultura. Non c’è nessuna voglia di ascoltare i figli, è tutto un delegare, la famiglia delega alla scuola, la scuola delega non si sa a chi, il ministero pensa di risolvere non si sa come”. L’unica vera “rivoluzione”, secondo Crepet, sarebbe di “togliere tutta questa tecnologia dalle scuole per i piccoli”, come hanno cominciato a fare in Svezia. Anche i genitori dovrebbero spegnere ogni tanto i dispositivi e parlare con i figli. Ci sarebbe bisogno di “cambiamenti coraggiosi, non di parole urlate”. Difficile. Ma a scuola si potrebbe cominciare col depositare i cellulari entrando in aula.