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Stupro Palermo, Crepet: “genitori servi dei propri figli, non hanno voglia di contrastarli. Porterei la maggiore età a 16 anni”

Una vicenda che tiene banco ormai da diversi giorni e che ha smosso l’opinione pubblica. Dietro lo stupro dei sette ragazzi di Palermo su una coetanea si nasconde probabilmente il fallimento di una generazione, o forse la società di oggi che è complice di tante situazioni. A dire la propria, come sempre in modo diretto, è lo psichiatra Paolo Crepet, intervenuto a Controcorrente, su Rete 4:

“Mi ha colpito il fatto di non essere colpito. È il ritorno di un eco terribile, cinquant’anni fa il processo per stupro, stesse parole, stessi atteggiamenti contro le donne. Cosa non va nei giovanissimi oggi? Sono saltate le agenzie educative, ogni genitore ha la possibilità di bloccare le cose sul telefonino o sul computer del figlio, se lo si volesse fare lo si sarebbe già fatto. È evidente che tutto questo non è nelle capacità ma forse nemmeno nella voglia dei genitori perché questo vorrebbe dire instaurare un contrasto coi propri figli mentre noi siamo una generazione che ha contestato i propri genitori per diventare servi dei propri figli e questo è il risultato”.

“I social sono stati inventati per amplificare, è una cassa di risonanza, nel bene o nel male sono questo. È il limite dei social network, questo non vuol dire bruciare tutto, ma credo che un’idea su una scuola diversa e su un’educazione diversa mi sembrerebbe evidente. Sono saltate tutte le agenzie, parrocchie comprese, questo è successo negli ultimi 40 anni”

Educazione sessuale a scuola? “Tutto quello che avviene nella scuola va bene, l’importante che avvenga qualcosa, io aggiungerei un suggerimento alla politica: abbiate il coraggio di portare la maggiore età a 16 anni, diamogli delle responsabilità”.

In risposta alla docente palermitana che aveva parlato di fallimento degli adulti, lo psichiatra afferma: “il problema è che parliamo del futuro. Se il ragazzo scarcerato (e poi tornato in carcere) ha subito delle avances da alcune ragazze siamo di fronte a un problema culturale. Se un Tribunale decidesse di mandare quei ragazzi tutti i pomeriggi dopo la scuola in un centro dove sono ospitate donne che hanno subito violenza, ad ascoltare quelle storie, significherebbe ricucire ciò che non conoscono, cioè il dolore”.

Daniele Di Frangia

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