I lettori ci scrivono

Su alcuni effetti dell’autonomia scolastica

Mi è capitato  di leggere su Tecnica della scuola un articolo scritto da Alvaro Belardinelli, che propone un bilancio dei 22 anni di autonomia scolastica italiana e, subito dopo, quello di una docente, intitolato Le amare conseguenze di una scuola che ha confuso l’istruzione di massa con la promozione di massa. Netto, oggettivo, spassionato il bilancio di Belardinelli: ed anche preoccupato e abbastanza pessimista. 

A questo interessante articolo accosto la lettera della docente perché mi permette di mettere a fuoco  alcuni effetti negativi dell’ “autonomia scolastica”. Mi ha colpito l’inizio,  che riporto: “In margine ai consueti saluti istituzionali sul sito della nostra scuola, un liceo classico-linguistico, ho pensato che senz’altro è bello chiudere l’anno con una riflessione sui buoni sentimenti e che senza dubbio è confortante per tutti che i nostri studenti siano lieti di essere buoni, più che eruditi”. Incuriosita dalla vaghezza del periodo, in contrasto con il titolo, ho fatto una piccola ricerca e sono risalita alla fonte, al liceo “Romagnosi” di Parma.

Leggere “i saluti di fine anno” della Dirigente scolastica mi ha fatto comprendere meglio cosa volesse dire la docente. Eccone uno stralcio: Un nostro studente […] riflettendo sulla esperienza di PCTO fatta nel terzo settore […] ha scritto: “Contatto umano, questo è stata la mia attività […]. Ridere, scherzare, chiacchierare […] E per fare ciò non servono né Dante né la geometria analitica, né la genetica né Platone, basta essere uomini”. In fondo è una bella sintesi dell’anno scolastico, che dalla fine illumina tutto il percorso: quando tutto quello che hai studiato, conosciuto, incontrato non resta come nozionismo, […] ma diventa cultura, sapere vitale, tanto parte di quello che sei da consentirti di essere semplicemente uomo […]”

Questo è il bersaglio polemico  della professoressa, che scrive per difendere l’idea che gli insegnanti  debbano avere la “responsabilità nel formare le competenze dei cittadini e dei lavoratori di domani” e non soltanto farsi promotori di “buoni sentimenti”. E quindi, continua, non si dovrebbe confondere l’istruzione di massa con la promozione di massa. Noto in questa lettera, oltre ad una certa mancanza di consequenzialità, la presenza di parecchi elementi che, di fatto, sottraggono autorevolezza all’insegnante. Il primo è la timidezza nell’affrontare qualcosa che ha creato disagio.

I “saluti” della dirigente potevano essere criticati senza infingimenti, ma chi ha scritto ha preferito essere allusiva. La Dirigente ha esposto chiaramente  il suo pensiero, mentre la docente lo critica velatamente. Perché fa così? Per non portare “discredito” alla sua scuola (altro effetto indotto dall’autonomia scolastica: mai fare “cattiva pubblicità” alla propria scuola)?

Per non entrare in rotta di collisione con la Dirigenza? Io non lo so, ma ci vedo un esercizio di servitù volontaria in quanto nulla vieta di criticare in modo esplicito un testo che venga reso pubblico. E proprio la subalternità è uno dei limiti più gravi di un ceto docente che ormai ha perso l’orgoglio intellettuale e si aggrappa, come può, al cascame della scuola “seria”, fantasma spesso evocato ma ormai sormontato dalla scuola tecnocratico-burocratica che ogni giorno si rafforza.

Questa scuola, che ha abdicato alla sua funzione principale (quella di trasmettere conoscenza)  può assumere anche un “volto umano” ed è la scuola di cui parla la dirigente, commossa dalle parole dello studente. Se un ragazzo afferma che  “per ridere, scherzare, chiacchierare  non servono né Dante né la geometria analitica, etc. etc. basta essere uomini”, passi pure; se lo approva una signora laureata e messa a dirigere un importante istituto la cosa diventa più grave.

Ma la dirigente dice in realtà qualcosa di profondamente diverso da ciò che scrive in buona fede il ragazzo: “quello che hai studiato, conosciuto, incontrato non resta come nozionismo, qualcosa di appiccicato in testa, ma diventa cultura, sapere vitale […]”.  II ragazzo non ha trovato nessuno che  lo abbia fatto riflettere su quale sia il valore della conoscenza, tant’è che egli la espelle da ambiti propriamente umani (ridere, scherzare, chiacchierare). È un’ingenuità, ma deriva anche dalla giovane età dello studente. Nelle parole della dirigente possiamo invece vedere in filigrana l’ossequio ad alcuni idola tribus del popolo della scuola: il riconoscimento del valore dei PCTO e delle  soft skills, una lancia spezzata a favore delle competenze e contro il “nozionismo”.

Il tutto condito con una salsa che accomuna la scuola attuale a quella di tempi lontani: la retorica dei buoni sentimenti.    Chiudo circolarmente il discorso e torno al bilancio sul ventennio di “autonomia scolastica”: bilancio negativo perché, in questo ventennio, quel poco di autenticamente democratico e progressivo che esisteva nella scuola tra gli anni Sessanta e Novanta del secolo scorso è andato in frantumi. Il ceto docente ha perso la bussola, sommerso da un diluvio di riforme, tutte traballanti ma tutte orientate in una direzione: quello della scuola di classe, che è cosa ben diversa dalla scuola di massa.

E la contraddizione non sta tra “scuola di massa e promozione di massa” ma tra famiglie che possono garantire ai loro figli un buon grado di istruzione e famiglie che non sono in grado di farlo. Non è una novità che la società italiana manchi di mobilità sociale; la scuola, l’istituzione che più di tutte dovrebbe garantirla, è strutturata oggi per riprodurre  la diseguaglianza. Questo è un dato di fatto: lo confermano le statistiche ISTAT. Non sarà la patetica difesa della propria materia di insegnamento, né l’invocare il rigore e la disciplina che migliorerà la scuola.

La scuola migliorerà quando una massa sufficiente di persone di ogni età e condizione sentirà con forza il bisogno di una maggiore giustizia sociale e si muoverà affinché la Repubblica rimuova gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini. Non è un programma rivoluzionario, ma l’articolo 3 della Costituzione: sarebbe ora di prenderlo sul serio.

Giovanna Lo Presti, Cub Scuola

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