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Sul “caso di Terlizzi” ci sono le precisazioni dell’avvocato della madre: si tratta di un “decreto penale di condanna” e non di una “sentenza di condanna”

L’ Avvocato Corrado Bonaduce, in qualità di difensore di fiducia della “donna terlizzese”, cui fa riferimento un nostro articolo e ad altri analoghi pubblicati nei giorni scorsi dalla nostra e da altre testate invia la seguente richiesta di rettifica segnalando che “la narrazione dei fatti è caratterizzata, sotto più di un aspetto, da evidenti inesattezze che contribuiscono a creare disinformazione nella collettività”.
In particolare – prosegue il legale – viene riportato erroneamente che la mia assistita sarebbe stata condannata con “sentenza” emessa dal Giudice dell’Udienza Preliminare del Tribunale di Trani; tale circostanza, tuttavia, è del tutto falsa, in quanto da un lato il provvedimento nei confronti della mia cliente è stato emesso dal Giudice per le Indagini Preliminari (c.d. G.I.P., organo da non confondere con il G.U.P.), e soprattutto, dall’altro lato, trattasi di un “decreto penale di condanna”, e non di una “sentenza di condanna”.
In proposito, giova precisare che la differenza tra queste due diverse tipologie di provvedimento non attiene ad un profilo meramente terminologico, ma risiede in significativi aspetti sostanziali e processuali di diritto penale. Invero, la “sentenza di condanna” è il tipo di provvedimento che il Giudice del dibattimento emette a conclusione di un giudizio ordinario, caratterizzato da una fase dibattimentale in cui trova piena attuazione il contraddittorio delle parti, ove ritenga che la pubblica accusa sia riuscita a dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio la colpevolezza dell’imputato. Al contrario, il “decreto penale di condanna” è un provvedimento emesso dal Giudice per le Indagini Preliminari nell’ambito di un rito speciale, il c.d. “procedimento per decreto”, che consente di pervenire ad una condanna omettendo sia l’udienza preliminare che il dibattimento, ove il G.I.P. ritenga di accogliere la richiesta in tal senso avanzata dal P.M. sulla scorta unicamente degli elementi di indagine raccolti dagli inquirenti, inaudita altera parte, ossia senza il coinvolgimento dell’imputato, il quale, per potersi difendere dall’imputazione sollevata a suo carico, ha a disposizione il successivo rimedio dell’opposizione al decreto penale di condanna.
È evidente, dunque, come, attraverso l’utilizzo improprio del termine “sentenza” e di espressioni come “la vicenda è finita nelle aule di tribunale”, i diversi articoli forniscano una rappresentazione dei fatti del tutto distorta e fallace, in quanto farebbero presupporre lo svolgimento di un ordinario processo penale con tutte le relative garanzie difensive, a differenza di quanto è accaduto nel caso di specie.
Preme rilevare, inoltre, che in nessun articolo è stato precisato che il provvedimento emesso a carico della signora in questione non è definitivo, dato che è tuttora pendente il termine di legge per proporre opposizione al “decreto penale di condanna” e instaurare così la fase del dibattimento, la quale potrebbe anche concludersi con sentenza di assoluzione in favore della mia assistita. Pertanto, alla luce del fondamentale principio di presunzione di non colpevolezza sino a condanna definitiva enunciato solennemente dall’art. 27, comma 2, della Costituzione, la mancanza all’interno dei Vostri articoli di ogni riferimento alla non definitività della condanna pronunciata dal G.I.P. di Trani costituisce una circostanza anch’essa mendace e lesiva dei diritti della mia cliente.
Infine, non si può non censurare come in qualche articolo venga menzionata la soddisfazione del sindacato “per la decisione del risarcimento in carico alla donna”, espressione assolutamente priva di ogni fondamento e di ogni logica, dal momento che il decreto penale di condanna non può mai contemplare alcuna statuizione di carattere risarcitorio intervenendo in una fase procedimentale nella quale non vi è ancora la possibilità, per eventuali soggetti danneggiati dal reato, di costituirsi parte civile per chiedere il ristoro dei danni derivanti dal reato.
La pena della multa, infatti, consiste nel pagamento di una sanzione pecuniaria allo Stato, e non già ai soggetti danneggiati dall’illecito penale.

Redazione

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