Il Gruppo di Firenze per la scuola del Merito e della Responsabilità ha elaborato una lettera-appello indirizzata al Presidente del Consiglio, alla ministra dell’Istruzione e al Parlamento, con la quale chiede di porre al centro della didattica del primo ciclo scolastico le competenze linguistiche di base.
L’appello, sottoscritto da alcune centinaia di docenti universitari – provenienti dai più diversi campi disciplinari, dalla linguistica alla pedagogia, alla matematica, dalla sociologia alla neuropsichiatria infantile, all’economia – richiama alla centralità della lingua italiana: si auspica il raggiungimento “al termine del primo ciclo, di un sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base da parte della grande maggioranza degli studenti”. Si propone “una revisione delle indicazioni nazionali che dia grande rilievo all’acquisizione delle competenze di base, fondamentali per tutti gli ambiti disciplinari. Tali indicazioni dovrebbero contenere i traguardi intermedi imprescindibili da raggiungere e le più importanti tipologie di esercitazioni”, addirittura con rigorosi suggerimenti di verifica: “introduzione di verifiche nazionali periodiche durante gli otto anni del primo ciclo: dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva a mano”.
Non una parola sulle cause di un fenomeno che affonda le proprie radici in un tempo lontano, fatto di tagli progressivi e costanti e di una politica culturale di matrice neoliberista che ha contaminato fino alle fondamenta la scuola italiana, giungendo alla demolizione programmatica, con la legge 107, senza – peraltro – che la maggior parte dei firmatari si preoccupasse di dire una sola parola sullo scempio che si stava facendo della scuola della Costituzione. Quella che “rimuove gli ostacoli che impediscono lo sviluppo della persona e la partecipazione”, come recita l’art. 3. Quale ostacolo più invalicabile se non un possesso insoddisfacente della propria lingua dal punto di vista lessicale, ortografico, grammaticale e sintattico? Quale barriera più ostativa se non l’incapacità di comprendere un testo?
Le politiche neoliberiste dell’Europa – alle quali le riforme scolastiche hanno aderito acriticamente – hanno dettato tagli agli orari, destrutturazione della continuità didattica e del progetto di tempo pieno e tempo prolungato, “invalsizzazione” degli apprendimenti degli studenti, bando intenzionale del pensiero critico analitico, primato delle competenze sulle conoscenze. Inoltre: dove erano costoro quando si tagliava un’ora di Italiano al biennio della scuola secondaria di II grado? Non abbiamo sentito che poche, debolissime voci.
La scuola italiana ha reagito dignitosamente, ma in solitudine, ad un attacco che l’ha vista bersaglio del licenziamento di massa più impressionante della storia del pubblico impiego (la legge 133/08, la riforma Gelmini), di un’idea pseudo-imprenditoriale che ha creato i progettifici, di uno spostamento di fondi a favore dei diplomifici paritari. Tutto ciò ha modificato il baricentro della scuola, non più luogo della cittadinanza critica per mezzo della cultura. Oggi le riforme dell’intero sistema scolastico si formulano senza alcun tipo di interlocuzione e confronto democratico; il teaching for testing (offensivo persino nella formula assonante) è una realtà cui editoria scolastica e pratiche didattiche si sono dovuti adattare; il totem del 2.0, A e Z di ogni intervento sulla scuola, al quale si è plaudito acriticamente inneggiando ad una demagogica idea di modernità, ha invaso gli spazi dell’incontro e della relazione educativa, rendendo pleonastiche alcune capacità, le stesse di cui i firmatari lamentano la scarsità.
Mettere mano alle Indicazioni Nazionali, come sembrano auspicare i firmatari dell’appello, sarebbe una soluzione apparentemente semplice ma inefficace, perché non tiene conto di quanto il processo culturale indotto dalle controriforme abbia agito in profondità. Nel gioco della caccia all’untore (uno dei più praticati nel nostro Paese) l’appello assegna alla scuola e ai docenti una responsabilità che è segnatamente delle politiche scolastiche; con il probabile unico risultato di mortificare – con superficialità e per l’ennesima volta – quanti hanno resistito coraggiosamente all’ondata massificante del “nuovo che avanza”, consentendo alla scuola di andare avanti. L’appello ha aperto un grande dibattito sui media e concentrato l’attenzione su un problema innegabile: un’occasione per coloro che credono nella scuola della Costituzione di ribadire che un’istruzione che fallisce nelle competenze culturali di cittadinanza di base va ricostruita dalle fondamenta, avendo il coraggio di individuare ed affrontare i reali nodi politico-culturali della questione.
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