Pur riconoscendo il “rischio che le nuove funzioni legate all’autonomia abbiano distolto l’attenzione dalla relazione con lo studente” (p. 47), il Rapporto firmato da Renzi e Giannini, La buona scuola, lungi dal ricusarla o almeno ripensarla, proclama di volerla “realizzare pienamente” (p. 62).
Così corrobora il sospetto che l’autonomia scolastica sia un errore tecnico intenzionale, una delle tante riforme che, ad onta dell’augurio contenuto nel nome, mirano soltanto ad “attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere …”, per ricreare il mondo di cinquanta, cento anni fa, in cui «il lavoro era necessità; la buona salute, dono del Signore; la cura del vecchio, atto di pietà familiare; la promozione in ufficio, riconoscimento di un merito; il titolo di studio o l’apprendistato di mestiere, costoso investimento» (sono le parole austere dell ‘europeista Padoa Schioppa in un articolo sul Corriere della Sera del 26 agosto 2003).
Di fatto la legge sull’autonomia scolastica dell’8 marzo 1999 non ha indicato finalità culturali o pedagogiche, ma si è limitata ad estendere il principio di sussidiarietà all’area dell’istruzione (cfr. p. 64 del Rapporto). Quantunque caldeggiato innanzitutto dalla sinistra, si tratta di un principio schiettamente liberale: polemico con lo stato, con il Leviatano feudale che opprime gli individui e perturba il mercato, esso esige che ne siano trasferite le funzioni agli enti periferici (ai corpi intermedi di Montesquieu) e sia ammansito in un ruolo appunto sussidiario.
La storia europea mostra però che già da metà Ottocento gli stati sono passati dalla connivenza con la rendita feudale a quella con la proprietà capitalistica; poiché concepisce la libertà soprattutto come esercizio della proprietà privata entro il meccanismo di mercato, la polemica liberale non avrebbe più vere ragioni da almeno un secolo e mezzo, e si fatica a comprendere perché essa sia così viva ancora oggi. È la storia del secondo Novecento che viene in aiuto alla comprensione: per evitare le crisi devastanti di un’economia regolata soltanto dal mercato, lo stato si fa liberal-democratico e interviene nell’economia a fini anticiclici, con conseguenze redistributive del reddito.
A questo punto si desta dal suo sopore la polemica liberale; poiché però lo stato esprime ormai non l’aristocrazia feudale, del tutto estinta, ma la volontà dei cittadini e ha il fine di garantirne anche i diritti sociali, di schiettamente liberale la risorta polemica ha soltanto l’apparenza: nella sua essenza essa è neoliberismo antidemocratico. In definitiva, non meno della cessione di sovranità statale a organismi sovrastatali, il principio di sussidiarietà funge soltanto da contenuto manifesto del sogno neoliberale, il cui pensiero onirico latente è la duplice pulsione a smantellare il welfare state e a spogliare il lavoro dei diritti acquisiti con le costituzioni democrat iche, per creare la società della disuguaglianza selvaggia. La scuola, in quanto istituzione propria dello stato democratico, è colpita alla radice dall’imposizione del principio di sussidiarietà.
Rendendola autonoma, esso la atteggia ad azienda e vi dissemina esigenze mai avvertite, incomprensibili sul piano tecnico:
1) burocratizza e sindacalizza la didattica intrappolandola in un groviglio di rapporti di diritto privato: offerta formativa, contratto formativo, programmazione, debiti, crediti, griglie di valutazione; soffocandola col proliferare dei dipartimenti, dei consigli, delle commissioni, dei gruppi di lavoro, degli inutili coordinatori, delle vane funzioni-obiettivo e dei superflui piani e delle insulse relazioni finali;
2) suscita la competitività tra le scuole, così da indurle a incrementare la loro clientela carezzandone i desideri con un fantasioso ventaglio di attività divertenti e creative e con l’aspettativa di successo senza fatica;
3) dissolve la didattica severa, volta alle competenze («Vede,» – dicev a ancora lo scorso 10 maggio l’ex-ministro Berlinguer, lo spensierato e impenitente ispiratore della legge dell’autonomia scolastica – “non possiamo più presentare ai giovani un trattato, un complesso di conoscenze strutturate, statiche, come spesso in molti fanno ancora oggi, perché a loro non piace. Bisogna cambiare linguaggio, cambiare metodo” ), e la sostituisce con la didattica flessibile e innovativa, versata nella progettualità estemporanea, ansiosa di sviluppare il tipo antropologico dell’homo precarius.
La conseguenza dei cambiamenti, documentata dalle indagini degli organismi internazionali, è che a 15 anni dalla riforma gli studenti italiani non padroneggiano né la lingua italiana né le lingue straniere né la matematica né le scienze.
Proprio come Renzi affronta la catastrofe economica provocata dall’unione monetaria con la fede nell’unione monetaria, cioè lascia desertificare l’economia italiana per imporre la flessibilità totale al lavoro, allo stesso modo il suo Rapporto affronta la catastrofe didattica provocata dall’autonomia con la fede nell’autonomia: riconosce e insieme dimentica il contrasto tra competenza e competitività, chiede ai docenti una didattica efficace e insieme li sprofonda ancora di più nell’aziendalismo improvvisatore e cosmetico, fino ad abbozzare un mostruoso ibrido tra l’ospizio e la palestra di flessibilità.
Non poteva essere altrimenti: dovendo sbalordire il pubblico con le innumerevoli possibilità della Buona Scuola, i compilatori non erano in grado di prestare attenzione alle umili necessità della scuola, che sono la scienza, la severità e l’amore per i giovani.
Così, tirando le orecchie ai docenti con indulgenza paternalistica (già il sottotitolo del documento suggerisce che la recessione sia da imputare alla loro inerzia, non all’euro) e senza sottilizzare sulle responsabilità delle riforme da Berlinguer in poi, dopo essersi diffuso in eroiche promesse di assunzioni, che certo offrono alle forze sindacali un alibi per l’ennesima ritirata, il Rapporto, in una retorica affine a quella dell’uomo nuovo, emana una processione di idee, ognuna delle quali è un incastro ingegnoso tra umiliazione degli insegnanti e sabotaggio della didattica:
1. l’ulteriore ampliamento dell’offerta formativa e la spinta ossessiva all’innovazione, contro il laborioso concentrarsi sulle competenze scientifiche;
2. l’orientamento dell’istruzione all’impresa, anziché alla cittadinanza, in base al dogma sublime che l’occupazione dipenda dalla scuola, non dalle scelte di politica economica;
3. il meccanismo di progressione di carriera che estende la competitività dagli istituti, nei quali ha già dato prove di sé non proprio brillanti, agli insegnanti e li riduce a sgomitare tra loro accattando ogni razza di crediti;
4. l’esasperazione della loro mobilità e della loro dipendenza da dirigenti scolastici sempre più estranei alla didattica;
5. una valutazione della scuola che, sospesa tra le competenze effettive raggiunte dagli studenti (menzionate solo a p. 66) e i balocchi dell’arricchimento e dell’innovazione dell’offerta formativa, rifluisce impotente in ulteriori rapporti e piani. I
l Rapporto Renzi-Giannini si incatena alla riforma dell’autonomia scolastica; dal suo apparire questa riforma invita gli insegnanti a fare tutto meno che insegnare; infatti non ha fini pedagogici: segue dal piano neoliberista di distruzione dello stato democratico; ma la scuola è un organo vitale della democrazia; il processo che vi realizza l’autonomia è la via crucis della sua degenerazione.
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