Sono una insegnante in pensione e appartengo a quella felice generazione che ha iniziato a insegnare da appena laureata nei lontani anni Sessanta.
Dico felice perché allora lavorare nella scuola era bellissimo, per mille motivi, ma ne cito uno per tutti: andare a scuola la mattina, incontrare i colleghi (spesso si andava a scuola insieme perchè la scuola da raggiungere non era vicinissima e però abitavamo vicinissimi tra noi) e poi lavorare con i ragazzi con animo sereno.
Adesso ho mia figlia che insegna già da 15 anni. Lei è entrata di ruolo abbastanza presto, per cui oggi gode di una discreta anzianità.
Vengo al dunque. Le immissioni in ruolo degli ultimi anni hanno cercato di estinguere la piaga del precariato, ahimè alimentato nei decenni non soltanto dalle non scelte politiche ma anche dai sindacati. Uomini e donne non più giovanissimi, quasi tutti sposati e con figli, si sono visti sostanzialmente ‘costretti’ ad accettare il ruolo, ovunque fosse, pur di non rischiare d’essere cancellati dalle graduatorie permanenti. Sacrifici, certo, anche accettati con la speranza del ricongiungimento alla famiglia.
Credo sia superfluo elencare tutto quel che ciò comporta, qualunque persona di ‘buon senso’ è in grado di comprendere (separazioni da figli, mariti, ricerca di alloggio, costi considerevoli in un frangente epocale tra i più drammatici della nostra storia recente).
Incuranti dello sfascio che rapidamente e inesorabilmente sta creandosi nella scuola – ricordiamoci che soltanto il lavoro di centinaia di miglia di insegnanti non fa accadere il peggio- la nostra ministra, come chi l’ha preceduta, prosegue diritta per la sua strada. Tutto benissimo, ma certo, di cosa si lamentano questi professori che sono stati beneficiati da tanta munificenza, adesso hanno un posto di lavoro, perbacco, che la smettano con le loro lamentele, le loro proteste inconsistenti.
E i sindacati? Dov’è finita la loro voce? Tutti zitti, buoni e in fila, pronti ad accettare quelle manciate di soldi che con molta dignità moltissimi docenti hanno iniziato a rifiutare.
Titolarità nella scuola? Ma non si dica nemmeno! Tu, docente di 40-50-60 anni con una carriera già alle spalle, se vorrai trasferirti per esigenze intervenute nel frattempo (credo che nessuno scelga di lasciare una scuola se non vi è una reale necessità), sarai trasferito in un ‘ambito’ per cui puoi finire in scuole molto più disagevoli se non addirittura lontane dal luogo dove vivi, in altre città, in altri paesi. E ancora: tu, docente, credevi d’essere un bravo docente, preparato, attento alla cura dei ragazzi, al tuo personale aggiornamento…. No, adesso, bene che ti vada, sarà il dirigente a sottoporti ad esame e se il tuo curriculum non corrisponderà ai suoi criteri di scelta, buonanotte al secchio!
Come funzionava prima la mobilità? Semplice: c’era un punteggio, c’erano delle scuole che potevi chiedere, dopodiché se il posto c’era venivi trasferito e se no rinunciavi o attendevi tempi migliori. Insomma, c’erano dei percorsi chiari, c’erano delle sicurezze. E, voglio ancora ribadirlo, c’era il piacere d’insegnare! Vorrei che la ministra Fedeli leggesse queste mie parole, così per uno scambio, ma soprattutto mi auguro che i docenti, tutti i docenti, si ribellino a questo stato di cose. Che parlino durante i Collegi, che rifiutino incarichi e denaro per un misero piatto di lenticchie (per altro buonissime!).
E qui non parlo di denaro, ma di dignità calpestata. Taccio sul resto perché questa mia lettera diverrebbe un cahiers de doléances!
Grazie per l’attenzione e cordiali saluti da un’insegnante rimasta tale nell’anima.