In virtù dell’attenta lettura del mio articolo da parte di Andrea Toscano, che ringrazio, vorrei precisare alcuni punti di merito riguardo al mio articolo e alla proposta di Condorcet.
Cominciamo dalla proposta di Condorcet: non è cambiata. E’ passato del tempo prezioso, ma non ne sono cambiati i termini. Delle regioni rapide ed efficienti potrebbero ancora cambiare il calendario in modo da renderlo meno pesante per gli studenti. Tra marzo, aprile, maggio e i “giorni canonici” di giugno c’è ancora spazio per creare un ritmo più vicino alle esigenze dei nostri studenti.
Ovviamente, poiché sono un insegnante, io rifletto qui in termini pedagogici e didattici, non burocratici, e mi limito a constatare che se soltanto si vuole fare qualcosa, si può. Se poi il compito stia al governo o alle regioni e se ci siano i tempi tecnici sono questioni importanti, ma di altra natura.
La causa che sta alla base della rimodulazione -e della sua urgenza- è peraltro larghissimamente condivisa, ed è la stanchezza di studenti e docenti. Chiunque abbia contestato la nostra proposta in ragione della diffusa stanchezza non sembra aver notato che è proprio quella ad averci spinto a fare la nostra proposta.
Se poi la nostra proposta dovesse finire fuori tempo massimo o di per sé non fosse sufficiente (ma noi non l’abbiamo mai considerata “esclusiva”, a dire il vero), bisognerebbe trovarne altre: la rimodulazione si può anche considerarla erronea, ma il problema rimane.
E questo ci porta allo snodo principale, e che era il cuore del mio articolo: quando la didattica a distanza è cominciata, le voci che si sono levate a sottolinearne i limiti (assai reali) erano anch’esse un coro compatto. Anzi, se proprio dobbiamo dirla tutta, era quasi lo stesso coro, con le stesse voci che ora ne celebrano la perfetta riuscita, come spero di aver adeguatamente documentato, anche se in maniera parziale (anche qui, più diffusamente).
Il cambiamento è tanto più curioso perché non è dettato dai tempi residui ormai troppo stretti: il coro si è levato compatto già a novembre scorso.
Ma non è neanche di questo che mi importa maggiormente. Il problema che io volevo sollevare era che se il giudizio sulla didattica a distanza può cambiare così repentinamente e per ragioni evidentemente estrinseche, allora rischiamo di trovarci veramente in difficoltà quando dobbiamo valutare cosa è successo alla scuola e decidere il “Che fare?”.
La nostra proposta può non piacere, ma se per respingerla si rigetta in toto l’idea che ci sia un problema da risolvere, allora non stiamo rendendo un buon servizio ai nostri studenti. Se diciamo che la dad ha reso questi due anni scolastici pari a tutti gli altri, allora certo non dovremo rimodulare l’anno scolastico (e lo spauracchio è esorcizzato), ma tutte quelle attività che normalmente avremmo potuto fare con i nostri studenti rimarranno non svolte o svolte in maniera assai parziale.
Hic Rhodus, hic salta. Per questo non risponderò nel dettaglio alle acute osservazioni procedurali che pure ho letto con attenzione. In tempi normali ci sarebbero mille ragioni e mille norme a ostacolare una bizzarria come la modifica in corso dell’anno scolastico. Ma non siamo in tempi normali. Viviamo in un’epoca di coprifuoco, ristoranti chiusi, infermieri e medici in servizio permanente effettivo a ritmi massacranti, divieti di spostamento, autocertificazioni. Le norme si cambiano per venire incontro alle nostre necessità, non il contrario.
Il mio auspicio è che la discussione possa procedere su basi pedagogicamente e didatticamente solide e con un’unica stella polare: l’apprendimento degli studenti. Del resto non si ricorderà nessuno.
Francesco Rocchi