“Il “tema” d’esame, che ipocritamente si può continuare a chiamare testo contando su una differenziazione davvero fittizia, è una forma non adatta a tutti, ma soprattutto fuori dal tempo, così come fuori dal tempo sono i percorsi di studio.”
Scrive così Laura Biancato, dirigente scolastica presso l’ITET Luigi Einaudi di Bassano del Grappa. E poi giù, a dare l’ennesima bordata ai pilastri dell’alfabetizzazione e della formazione, gli unici che, francamente, possano realizzare il diritto all’istruzione come condizione egualitaria e che, invece, si vorrebbe far passare per superati e anacronistici insieme a quello sparuto gruppo di docenti conservatori che faticano a convertirsi alla versione 6.0 della scuola.
Devo essere sincera, ho fatto fatica ad arrivare all’ultima parola senza sentirmi pervasa da un profondo senso di smarrimento. Spiace che sia un Dirigente Scolastico a scrivere certe cose, le rende ancora più difficili da digerire, perché da chi ha responsabilità nella scuola ti aspetti che la difenda, la protegga, ne preservi il senso profondo.
Ma tant’è …dobbiamo leggere che la prova scritta d’italiano all’Esame di Stato andrebbe abolita perché roba per passatisti, addirittura omologante dal punto di vista degli stili di apprendimento, inutile a dimostrare “le competenze in lingua madre” degli studenti e oltremodo mortificante in quanto “non adatta” a tutti.
Poi la Biancato, nel finale, si supera individuando ancora una volta nei docenti (che, come ostriche, stanno attaccati al vetero-sistema) i responsabili dell’abbassamento di competenze degli studenti, i quali, nell’attuale sistema scolastico, lei vede come “soggetti passivi seduti dietro a un banco”. Fra le righe si legge tutta la critica all’impostazione scolastica tradizionale, molto in voga di questi tempi nei palazzi del potere.
Eppure non ci vuole molto a capire che il grande vantaggio della “lectio magistralis” è proprio l’ascolto: il discente, frastornato e disorientato dai molteplici stimoli della realtà esterna, in classe può fermarsi a riscoprire il valore dell’ascolto che implica tutt’altro che passività. Un bravo insegnante sa come “commuovere”, nel senso di “cum movere” e cioè provocare, stimolare, emozionare.
D’altra parte penso che sia indiscutibile e non negoziabile il valore che ha la scrittura a mano come autoriflessione e autodeterminazione dello studente e del suo mondo interiore e che cosa possa svelare un “tema” della maturità a un docente lo può capire solo chi ne ha fatto esperienza e sa che quelle righe sono vergate con sudore e lacrime dal giovane che chiude un percorso di vita. Che sia un liceale o un meccanico poco importa: le parole sono il più importante strumento che la vera scuola della Costituzione ci mette a disposizione. Esserne sprovvisti è come viaggiare a fari spenti nella notte.
Checché se ne dica, rispetto a quest’evidenza non c’è tecno-scuola che tenga.
Imparare a scrivere significa imparare a pensare e non lo si deve fare per l’università o per fare bella figura all’esame: lo si fa per sé stessi, per dare voce alla propria umanità, per dare corpo e forma alla propria idea del mondo e degli altri. Tutti gli insegnanti d’italiano sanno che ogni tema trasuda potentemente di umanità che si fa spazio tra le virgole e i punti e dove le idee corrono e crescono con il maturare degli studenti e l’ampliarsi del loro campo vitale ed esperienziale, perché “il linguaggio- come diceva James Hillman- può esprimere ogni sfumatura emotiva, ed è proprio questa la sua bellezza e il suo potere.”
Ma la parola scritta di più, essa resta lì, sulla pagina bianca, a ricordarci che quel pensiero noi l’abbiamo partorito in un “qui ed ora”, rispetto al quale ci siamo poi evoluti come è nel corso naturale degli eventi.
Come si può anche solo lontanamente pensare di privare i maturandi di questo diritto?
L’unica, vera eresia pedagogica è ritenere che la conoscenza sia un’appendice della prassi, come la scrittura un orpello superato della vecchia scuola novecentesca.
Giorgia Loi