Gentile redazione,
«Bisogna includere» (ed il suo immancabile corollario: «non bisogna lasciare indietro nessuno») è oggi divenuto il grimaldello buonista grazie al quale, nella scuola, è oggi possibile giustificare tutto ed il contrario di tutto, non avere problemi e non scontentare nessuno (studenti, genitori, dirigenti).
Basta utilizzare la parola magica inclusione ed ecco che ogni cosa diventa possibile senza avere troppi sensi di colpa. E in forza di questo si portano avanti tutti, indipendentemente dalle qualità che possiedono (o non possiedono), da ciò che fanno (o non fanno) e da ciò che sanno (o non sanno).
L’idea alla base è che tutti i ragazzi sono indistintamente uguali e devono riuscire a fare tutto. Che però è una chiara menzogna: siamo tutti diversi, e ognuno può fare cose diverse l’uno dall’altro. Ma dire questo, oggi, è molto poco inclusivo e non certo politically correct. Solamente che è vero: è la natura stessa a dirci che ognuno nasce con qualità uniche, irripetibili e differenti da ciascun altro.
Ed essendo tutti diversi, più che portare tutti all’arrivo con tanta inclusività, la vera sfida educativa dovrebbe essere quella di aiutare ciascuno a scoprire le proprie qualità e i propri limiti, cioè a comprendersi, e così aiutarlo trovare la propria strada.
E c’è un solo modo perché questo possa avvenire: dicendo la verità e proponendo percorsi e anche ostacoli all’altezza, affinché gli studenti possano davvero mettersi alla prova, e così scoprire le proprie qualità come anche i propri limiti. Trattare con verità uno studente, al contrario di ciò che si pensa oggi, significa soltanto compiere un atto d’amore verso di lui.
E l’insegnante che agisce così, quello che oggi viene definito severo e cattivo, è in verità l’unico ad essere buono perché tratta con serietà i propri studenti. Ed è anche l’unico ad essere realmente inclusivo nel vero senso della parola, perché con la sua azione cerca di includere i propri studenti nella comunità degli esseri coscienti e consapevoli. Perché l’insegnante veramente inclusivo non è quello che si copre gli occhi e dice che va bene tutto e vanno bene tutti, ma quello che, dicendo le cose come stanno davvero, è in grado di accompagnare ogni alunno alla scoperta di sé dicendogli la verità e dunque aiutandolo a fare le scelte corrispondenti.
Se, ad esempio, uno studente del Liceo Classico non ha alcuna predisposizione per il greco e per il latino, ma io lo trascino fino alla conquista del diploma, l’ho aiutato di più? Sono stato inclusivo? No, semplicemente l’ho illuso, lasciandolo nell’incoscienza di ciò che è in grado di fare e cosa no. E così, in nome dell’inclusione, si escludendo i ragazzi dalla consapevolezza di sé. Non proprio il migliore dei risultati. Che inclusione è quella che include tutti nell’incoscienza? Che inclusione è quella che si chiude gli occhi sulle specificità degli studenti che ha davanti?
Quanta bellezza c’è, al contrario, nel volto di uno studente che affermando di avere compreso di non essere portato per determinate discipline ti annuncia di avere deciso di frequentare una scuola maggiormente corrispondente alle sue qualità e ai suoi interessi? La scuola perde uno studente, ma non ha svolto il suo compito? Quel ragazzo non è un successo formativo? Che successo formativo c’è nel portare tutti al termine del percorso abbassando drasticamente il livello delle richieste “per non lasciare indietro nessuno”?
Io penso al contrario che questo sia esattamente il modo migliore “per lasciare indietro tutti” e fare del male a tutti: ai ragazzi in difficoltà, ai quali si impedisce di fare scelte più corrispondenti, ma anche a quelli che avrebbero tutto per fare un percorso all’altezza ma viene loro impedito, proponendo di continuo percorsi al ribasso per tirarsi dietro tutti. Ai primi non viene data la possibilità di trovare la strada corrispondente a sé ma vengono trascinati avanti indipendentemente, ai secondi non viene data la possibilità di scoprire e far fiorire le potenzialità che hanno ma che nessuno chiede loro di usare. E così, partendo dal bellissimo obiettivo di non lasciare indietro nessuno e di includere tutti, si giungerà al risultato di avere lasciato indietro tutti.
Inclusiva sarebbe allora la scuola che si assume il coraggio di dire la verità ai propri studenti. Quella che dice «no» quando è «no» e «sì» quando è «sì», «quattro» quando è «quattro» e «otto» quando è «otto»; non quella che dice «sì» a tutti i costi. Accanto alle parole inclusione e successo formativo manca allora l’unica che può dare senso a ciascuna: verità. Sono convinto che non possa esistere vera inclusione senza verità, in presenza della verità e nella verità. È troppo importante che la scuola torni a dire la verità: di mezzo ci sono la crescita e la realizzazione dei ragazzi che ci vengono affidati, e quindi del mondo che essi andranno a costruire. O l’inclusione è orientata a questo, oppure non so davvero cosa significhi.
Marco Radaelli
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