Il Rapporto Svimez 2017, smentendo il luogo comune di un Sud affollato di dipendenti pubblici, segnala invece un “forte ridimensionamento” della P.A. meridionale che tra il 2011 e il 2015 avrebbe perso 21.500 dipendenti e raggiunto una spesa pubblica pro capite corrente consolidata pari al 71,2% di quella del Centro-Nord, con un divario in valore assoluto di circa 3.700 euro a persona.
Il Mezzogiorno inoltre, secondo Svimez, aggancia la ripresa, e segna tassi di crescita di poco inferiori al resto del paese, infatti mentre nel 2017 il Pil del Sud cresce dell’1,3% nel Centro Nord cresce dell’1,6%, anche se continua a mantenere problemi irrisolti e forti disuguaglianze.
Per quanto riguarda invece il lavoro, sebbene Svimez segnali nell’ultimo biennio una crescita dell’occupazione meridionale, fa notare come questa riguardi principalmente i lavoratori anziani e un incremento dei lavoratori a bassa retribuzione.
Tuttavia nei primi 8 mesi del 2017 – aggiunge Svimez – “sono stati incentivati oltre 90 mila rapporti di lavoro nell’ambito della misura ‘Occupazione Sud’, grazie alla proroga delle misure per la decontribuzione dei nuovi assunti nel Mezzogiorno decise dal Governo”.
Cresce l’emigrazione, “il Mezzogiorno ha perso altri 62 mila abitanti. Il saldo migratorio totale del Sud continua a essere negativo e sfiora le 28 mila unità, mentre nel Centro Nord è in aumento di 93.500”; inoltre “considerando il saldo migratorio dell’ultimo quindicennio – ossia una perdita di circa 200 mila laureati meridionali – e moltiplicando questa cifra per il costo medio che serve a sostenere un percorso di istruzione elevata, la perdita netta in termini finanziari del Sud ammonterebbe a circa 30 miliardi, trasferiti alle regioni del Centro Nord e in piccola parte all’estero”. Si tratterebbe, in questo caso, di quasi due punti di Pil Nazionale – continua il Rapporto – “e si tratta di una cifra al ribasso, che non considera altri effetti economici negativi indotti”.
Per l’Unione degli Universitari: “Il Sud, praticamente per ogni indicatore, si conferma l’area del paese più in difficoltà, in un contesto in cui l’Italia è sempre più mezzogiorno d’Europa. Lo studio evidenzia che al Nord a proseguire gli studi è il 62,7% dei diplomati (+5,5% rispetto al 2015) e al Centro dove raggiunge il 63,6% (+4,3%) mentre nel Mezzogiorno il tasso si attesta al 54,5% (+2,1%). Situazione analoga al dato sugli immatricolati: a livello nazionale si registra un lieve aumento (+2,4%), anche se questo risulta del tutto insufficiente a sanare la perdita di immatricolati avuta negli ultimi dieci anni, corrispondente al 12,5% (38 mila studenti); anche per questo indicato, il Sud ottiene la maglia nera, visto che le regioni del Mezzogiorno che hanno perso in 10 anni il 22,4% dei propri immatricolati residenti. Infine la quota media di laureati nella fascia di età 25-64, nel Mezzogiorno scende al 14,6% rispetto al 17,9% del Nord e al 19,8% del Centro (la media nazionale è di poco inferiore al 18%).”
“Probabilmente- prosegue l’UDU- il dato più allarmante riguarda l’emigrazione dalle regioni meridionali. Su un saldo migratorio netto al negativo di 700.000 tra il 2002 ed il 2015, ben 500 mila di questi sono giovani fino ai 34 anni e ben 200mila sono laureati. Tutti questi dati, sono la dimostrazione che è prioritario innanzitutto tornare ad investire sul diritto allo studio”.
Anche Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio della Camera, lancia un allarme sui dati Svimez: “C’è un dato molto preoccupante, riguarda la fuga dei laureati dalle regioni del Mezzogiorno: -200mila laureati in fuga dal Sud negli ultimi 15 anni. Più laureati perdiamo più valore aggiunto per il futuro perdiamo, significa togliere benzina alla società del Sud e scalare la montagna della crescita duratura diventa ancora più complicato. Dai dati si evince un tasso di occupazione dei laureati in Italia quasi all’80%, quelli con licenza media al 40% e le donne addirittura al 29%, con l’aggravante che la maggior parte dei residenti con bassa scolarizzazione sono al Sud, perché i laureati tendono ad andar via”.
“Questo – prosegue – deve tradursi in interventi seri e urgenti sulla scuola con il tempo pieno al sud che non può essere un lusso. Non è più tollerabile il finanziamento pubblico per reti digitali nelle aree ricche del Paese per investimenti fatti da multinazionali che non hanno alcuna attenzione per il servizio pubblico. Vanno fissati criteri sociali chiari per gli investimenti sulle reti fatti con soldi pubblici. Sui fondi europei dopo 29 anni dal 1989 a oggi abbiamo la possibilità di tirare una riga per dire quello che non ha funzionato”.
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