Due notizie significative, riportate anche dalla nostra testata: la prima è che pure il governo Meloni (come tutti i governi dal 1982 in poi) disinveste dalla Scuola; solo 150, infatti, sono i milioni per il personale scolastico; 120 ne vengono tagliati dai fondi per il funzionamento scolastico; spariranno inoltre altre 700 scuole grazie agli ennesimi accorpamenti; e nemmeno una parola sui soldi per il contratto 2022-24 (destinato al rinnovo quando sarà già scaduto, come i precedenti).
Seconda notizia: France Press pubblica uno studio sulla carenza di insegnanti in Costa d’Avorio e… in Italia; nella Penisola, infatti, mancano all’appello 36.000 ATA e 210.000 docenti, complice la scarsa motivazione offerta dai bassi stipendi.
Inevitabile allora chiedersi: benché lo Stato italiano intenda premiare il “merito”, alla Scuola italiana viene riservata l’attenzione che merita? Per capirci: il nuovo governo intende metter mano seriamente al portafogli, dopo 40 anni di tagli? Il programma elettorale di Fratelli d’Italia faceva sperare in una risposta positiva, dato che conteneva parole bellissime: «Intervento straordinario sull’edilizia scolastica, per scuole sicure, moderne ed ecosostenibili. Più sport nelle scuole, con nuovi impianti, piscine e palestre. (…) Valorizzare la professione del docente: contrasto al precariato storico e alla discontinuità didattica; (…) progressivo allineamento degli stipendi del corpo docente alla media europea». Frasi certo non scritte solo per prender voti (anche perché, purtroppo, per l’italiano medio la Scuola non è certo una priorità).
Eppure la Scuola italiana almeno un merito ce l’ha: quello innegabile di aver trasformato un Paese di contadini analfabeti (quale era nel 1861) nella quarta potenza industriale del pianeta (nel 1991) in soli 130 anni. Posizione perduta — guarda caso — nell’ultimo trentennio.
E allora? In cosa il nuovo governo intende differenziarsi dai precedenti in merito alla Scuola? Forse solo per aver introdotto la parola “merito” nel nome del dicastero trasteverino?
Eppure basterebbe poco per far meglio rispetto al passato trentennio (meritando la riconoscenza di chi nella Scuola lavora e studia). Basterebbe, ad esempio, invertire di 180 gradi la rotta, correggendo — finalmente — le storture introdotte nel 2008 dalla “riforma” Gelmini/Tremonti/Berlusconi. La quale, pur di distrarre dalla spesa scolastica otto miliardi e mezzo di euro, operò sulle classi di concorso una revisione, i cui effetti disastrosi sabotano il lavoro del personale scolastico. Ben 80.000 cattedre furono tagliate. Molti docenti, privati della titolarità, si videro assegnare materie d’improvviso considerate “atipiche”, per le quali non avevano conseguito l’abilitazione precedentemente prevista.
Il docente è da allora trattato come un impiegatuccio mal pagato e sottostimato, che debba accontentarsi della “pratica” assegnatagli (in palese violazione del diritto dei discenti di avere docenti motivati, preparati, competenti nella propria materia). La riduzione di tutte le cattedre a 18 ore, inoltre, limita la continuità didattica, impedendo la copertura delle assenze brevi (non essendoci più ore a “completamento cattedra”), per le quali è contestualmente vietata la nomina di supplenti temporanei.
Tutto ciò oggi, a dodici anni dall’entrata in vigore della “riforma”, sembra ormai “normale”, in un Paese ove son normali le peggiori storture (come la cronica pericolosità degli edifici scolastici). Ad esempio, è diventato “normale” in troppe scuole il quotidiano (illegale) smembramento dei gruppi classe, che danneggia il diritto al lavoro dei docenti precari e — soprattutto — il diritto dei discenti allo studio.
Spiegare tutto ciò a chi non lavora nella Scuola è vana fatica di Sisifo. La Scuola nell’Italia del terzo millennio è qualcosa di cui tutti straparlano, di cui tutti credono di sapere abbastanza solo per averla frequentata da giovani; ma di cui, in concreto, non cale granché ad alcuno.
La prova è nei fatti. Se pochi italiani si scandalizzano davvero per la prevista crescita della nostra spesa militare fino a 40 miliardi annui (per le guerre dello zio Sam), ancora inferiore è il numero dei nostri compatrioti che non dormono la notte per il continuo stillicidio dei tagli che da 40 anni sani amputano alla Scuola le sue parti più vitali, riducendola al lumicino e pagandone il personale con salari che sarebbero considerati vergognosi in qualunque Paese civile.
In simile situazione, sono i docenti a dovere (e potere) riprendere in mano il futuro proprio e della Scuola. Devono (e possono) farlo, rifiutando il paradigma imperante di “docente burocrate”, compilatore pedante e compulsivo di schede, moduli, verbali e scartoffie varie. Il docente deve pretendere di esser trattato come merita, nella Scuola del “merito”, per tornare al ruolo che gli compete: quello di punto di riferimento per il discente, di stimolo al suo desiderio di conoscere, di mediatore della cultura alta, di educatore che sprigiona il meglio dai propri allievi.
La Scuola deve tornare ad essere il luogo ove il sapere si crei e si sperimenti. Solo ricominciando a credere nel proprio ruolo, i docenti ritroveranno il coraggio e la forza di chiedere rispetto e finanziamenti adeguati.
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