Molto spesso, quando episodi di violenza nei confronti degli alunni arrivano sulle pagine dei giornali, arrivano anche le esternazioni di chi pensa che il problema possa essere risolto installando impianti di videosorveglianza all’interno delle aule.
Questa volta, commentando un caso verificatosi in provincia di Brescia, è intervenuta però persino Maria Spena, parlamentare di Forza Italia.
Sulla questione si era già espresso a suo tempo il Garante per la Privacy che aveva sollevato più di un dubbio sulla liceità di una misura del genere.
Ma il problema non è puramente giuridico perché richiama questioni psicologiche e pedagogiche di non poco conto.
La prima obiezione è semplice, persino banale: è ovvio che la sola presenza delle telecamere funziona da “deterrente”, quindi l’impianto servirebbe non tanto a individuare gli episodi di violenza ma piuttosto a “prevenirli”.
Se così fosse, si potrebbe anche esprimere un giudizio positivo, ma il problema è molto più complesso.
Gli psicologi dell’età evolutiva, per esempio, sanno bene che – per osservare determinate dinamiche comportamentali gli osservatori devono essere “nascosti”, tanto che molto spesso, nelle situazioni sperimentali, si usano specchi unidirezionali che consentono a chi è fuori da una stanza di vedere ciò che accade all’interno senza però essere visti dai soggetti osservati.
E c’è ancora un altro aspetto, ancora più importante: siamo sicuri che la presenza di un impianto di videosorveglianza all’interno dell’aula non incida in modo pesante sulla stessa relazione educativa?
Cioè: come cambia la relazione educativa se docente e alunni “sanno” di essere osservati, anzi addirittura ripresi e registrati?
Sono questioni complesse e stupisce che non ci si renda conto che la videosorveglianza non è solo un problema giuridico ma è soprattutto un tema pedagogico molto delicato da affrontare con la massima attenzione.
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