E’ vero che l’art. 24 della legge n. 214/201 tratta anche di flessibilità ed incentivazione. Ma, dato che il repentino e continuo innalzamento dell’età pensionabile viene legato all’incremento della speranza di vita, non permette di anticipare la data di ritiro (a meno di non andarci con la pensione anticipata e con pesanti disincentivi).
Un’altra data fatidica oltre che discriminante è quella del 31/12/2017. Per i dipendenti con età inferiore a 62 anni (pensione anticipata) le norme prevedono una penalizzazione economica nella percentuale del 2% per ogni anno prima dei 60 e dell’1% dopo. Ma, fino al 31/12/2017, la penalizzazione non si applica per alcuni casi come è stabilito dall’art. 6 comma 2 quater della c.d.“Mille proroghe” (D.lvo n.216 del 29/12/2011): “Le disposizioni dell’articolo 24, c. 10, in materia di riduzione percentuale dei trattamenti pensionistici, non trovano applicazione, limitatamente ai soggetti che maturano il previsto requisito di anzianita’ contributiva entro il 31/12/2017, qualora la predetta anzianita’ contributiva derivi esclusivamente da prestazione effettiva di lavoro, includendo i periodi di astensione obbligatoria per maternita’, per l’assolvimento degli obblighi di leva, per infortunio, per malattia e di cassa integrazione guadagni ordinaria”.
Si tratta quindi di una norma pro tempore, fino al 31/12/2017 (ore 24,00), che innesca però tante discriminazioni: per esempio, non rientrano in questa proroga sulla penalizzazione né il riscatto degli anni di università, né i periodi di maternità facoltativa, e né di cassa integrazione straordinaria. Inoltre non sono più “buoni” ai fini del conteggio dei 42 e rotti anni di servizio i giorni in cui un lavoratore è stato assente per permessi retribuiti per motivi familiari, di lutto, per il diritto allo studio, la donazione del sangue, lo sciopero.
Con la riforma Fornero i permessi goduti con la legge 104 non vengono più conteggiati ai fini pensionistici. Da decenni si discute sul pre-pensionamento di 5 anni per i genitori con figli disabili e invece toccherà loro recuperare tutti i giorni di “permesso”. Nel conteggio del tempo di servizio effettivo entrano solo i giorni lavorati e non quelli coperti da contributi lavorativi. Questo significa che chi ha fruito di due anni di congedo dovrà lavorare due anni in più per maturare quel diritto. Se non lo fa incorre in penalizzazioni di trattamento. Quei 42 e rotti anni devono riferirsi a lavoro effettivamente prestato. La manovra Fornero comunque si è perfezionata solo a luglio e quindi con le prime persone che stanno andando in pensione con quelle regole la situazione è esplosa.
Neppure le ore dedicate alla donazione di sangue, seppur coperte da contribuzione effettiva e utili ai fini pensionistici, sembrerebbero non utili per determinare l’anzianità contributiva. Se si fa un rapido calcolo, per un iscritto che dona il sangue da quando ha 18 anni e lo fa a pieno regime (cioè quattro volte l’anno), in 40 anni di vita lavorativa dovrà recuperare 160 giornate di astensione dal lavoro, che si traducono il 7-9 mesi in più di servizio. Scrive Vincenzo Saturni, presidente di AVIS: “Penalizzando i donatori dal punto di vista pensionistico non si riconosce il valore morale e solidale della donazione di sangue per il servizio sanitario nazionale, scoraggiando per l’immediato futuro la chiamata dei donatori (attuali e potenziali) e mettendo seriamente a rischio l’obiettivo dell’autosufficienza nazionale di sangue ed emocomponenti. E questo, semplicemente, non è accettabile”. In tempi di ventilate dimissioni di senatori della nostra Repubblica e di “verifica di Governo”, cresce la preoccupazione degli italiani per le proprie pensioni. E se oggi il timore riguarda ancora quando e come lasciare il lavoro mantenendo un assegno dignitoso, per il futuro c’è chi immagina addirittura di non arrivare mai alla pensione.
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