Che in Italia esistano “due scuole” non lo si scopre certamente oggi dopo l’uscita del Rapporto Svimez: la questione è vecchia, anzi vecchissima e finora nessun Governo è mai riuscito ad invertire la tendenza.
Uno degli ultimi tentativi venne fatto nel 2018 dal Governo giallo-verde di Giuseppe Conte quando nella legge di bilancio approvata quell’anno venne inserita una norma che aumentava di 2mila posti la dotazione del tempo pieno nella scuola primaria.
All’indomani del provvedimento l’allora Ministro del Lavoro Luigi Di Maio si era lasciato andare a commenti entusiastici: “Ieri sera nella legge di bilancio è stato finanziato il tempo pieno in tutte le scuole elementari, è una promessa mantenuta. Tutti coloro che vorranno potranno aderire al tempo pieno che ci sarà in tutte le scuole elementari e che ci consentirà l’assunzione di 2000 nuovi insegnanti e in parte il rientro dei cosiddetti ‘deportati della buona scuola’ che erano stati sparati con un algoritmo in tutta Italia, spesso lontani dalle loro famiglie”.
Le cose andarono molto diversamente: a conti fatti, al momento delle iscrizioni, nelle regioni del sud le richieste di tempo pieno da parte delle famiglie furono molto ridotte e la maggior parte dei 2mila posti furono attivati nelle regioni del nord.
Il fatto è che per attivare il tempo pieno non bastano né i proclami né la buona volontà: occorrono strutture (spazi, edifici adeguati, locali, mense) e servizi aggiuntivi come per esempio i trasporti, tutte cose, insomma, che non si improvvisano dall’oggi al domani e che richiedono investimenti e risorse a lunga scadenza.
Ma ci sono anche ragioni culturali difficili da comprendere: non esistono dati completi e ufficiali ma dai numeri parziali che si possono ricavare dal Portale Unico della scuola del Ministero risulta che gli alunni che concludono la scuola primaria all’età di 10 anni (e dunque con un anno di anticipo rispetto alle regole) sono più numerosi nelle province del sud rispetto a quelle del nord.
Ciò significa che la pratica degli anticipi è più diffusa al sud che al nord.
E’ anche possibile che al sud il tempo pieno non venga inteso dalle famiglie (e dalle scuole stesse) come una opportunità educativa e formativa in più dal momento che i dati dimostrano che – nei tempi lunghi – un maggior tempo scuola alla primaria o alla secondaria di primo grado non influisce in modo significativo sugli esiti scolastici finali (è noto che i risultati degli esami di Stato del secondo ciclo sono mediamente più alti al sud rispetto al nord).
Il tempo pieno, insomma, viene visto più come una sorta di “accudimento” per i ragazzini che hanno necessità di stare a scuola tutto il giorno che non come un modello pedagogico e didattico che finalizzato a favorire apprendimenti, socializzazione e crescita complessiva.
Ad ogni modo quello che sembra emergere da tutte le indagini che parlano del divario fra scuola del nord e scuola del sud è che il superamento delle differenze è legato solo in piccola parte all’aumento degli organici; sembrano essere assai più incisivi interventi sull’edilizia, sui servizi aggiuntivi, sulle strutture culturali (biblioteche pubbliche e non solo). Senza trascurare la necessità che tutti comprendano che la scuola e l’istruzione possono fare davvero la differenza nella vita.