Cioè difendere a denti stretti la concezione umanistica della nostra cultura.
Con un concetto di formazione che è anzitutto umana, cioè esercizio assieme alla vita pensata, e non subita.
È un esercizio assieme, attraverso gli approfondimenti che offrono gli indirizzi di studio, le cosiddette materie scolastiche, le quali non sono altro che finestre sul mondo.
Ciò che mi ha colpito, in quest’anno di obbligo della didattica a distanza, è l’emergere di una condizione per la quale le famiglie, e dunque gli stessi ragazzi, hanno dovuto dichiarare ed esplicitare le proprie disuguaglianze.
E le scuole migliori hanno e stanno facendo di tutto per arginare queste disuguaglianze. La vita di scuola, cioè, come argine e reciproca educazione alla socialità aperta, non escludente e non esclusiva.
Differenze di connessione, differenze di formazione in famiglia sulla cultura digitale, differenze di disponibilità di strumentazione, differenze di gestione famigliare dei tempi e degli spazi.
È ovvio che ci devono essere le condizioni perché le scuole, pur con tutti i protocolli di sicurezza, possano restare aperte. Penso qui al pasticcio dei trasporti, con lo scaricabarile tra presidenti delle regioni e governo, anche tra le aziende di trasporto e le scuole stesse, ma in realtà non si è fatto niente per potenziare le linee, per adeguarle alle nuove esigenze.
Non solo, chi può “educare” i giovani alla comprensione della complessità che si sta vivendo, se non, ancora una volta, le scuole, ovviamente in raccordo con le famiglie?
Chi, cioè, può costruire un filo rosso tra vita dei giovani dentro l’aula e fuori l’aula?
Quindi, come altri Paesi hanno deciso, tenere il più possibile aperte le scuole.
Il più possibile.
Ed un grazie grande ai presidi, ai docenti, al personale, come a tutte le famiglie.
Ci si educa assieme alle complessità, vecchie e nuove, cioè al rischio, che è la vita stessa. Cioè si impara insieme a vivere.
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