Terrorismo, la scuola può insegnare a non avere paura

Cosa deve fare una scuola per favorire il dialogo e il confrontarsi pacifico delle opinioni, per ascoltare i pensieri e il cuore dei bambini il giorno dopo le stragi che hanno colpito Parigi e, soprattutto, riflettere insieme a loro su cosa fare per evitare che quella violenza avveleni la già complessa convivenza  multiculturale?

Una risposta l’ha data la scuola di via Laparelli n.60 a Roma, nel popoloso quartiere di Torpignattara, proprio un mosaico di quella convivenza multiculturale, una sfida continua e difficile ma anche con successi, dovuti proprio a scuole come questa, con il suo 35% di alunni non italiani.

All’incontro di venerdì 20 novembre  hanno partecipato insegnanti, genitori e bambini delle elementari e delle medie del plesso; nei giorni precedenti i bambini avevano parlato in classe dei fatti di Parigi e i  docenti  li avevano aiutati a esprimere le loro emozioni: “paura”, “tristezza”, “rabbia” (questi i titoli di alcuni dei poster che i bambini avevano disegnato) ma anche, sorprendentemente, “gioia”, perché la riflessione era anche arrivata a cosa li facesse sentire sicuri e a come si può superare la paura di questi momenti difficili.

La scuola ha ospitato tre interventi esterni, il primo è stato di don Manrico, il parroco di una chiesa di quartiere che ha lanciato un messaggio ai bambini espresso in linguaggio semplice: “In un mondo in cui si sta tutti bene, nessuno vuole fare del male all’altro e per questo bisogna cercare di essere buoni gli uni con gli altri, non dobbiamo escludere, non dobbiamo giudicare, non dobbiamo prendere in giro il diverso”.

Poi si è rivolta ai bambini e agli adulti la mediatrice culturale egiziana Haiam Eisa, che ha spiegato che “quello che è successo è contro l’Islam e contro i musulmani” e che “è l’ignoranza quella che si deve combattere”.  Ha aggiunto: “Combattiamo insieme l’ignoranza per non avere una generazione piena d’odio, è l’odio che avvicina le persone all’ISIS, dobbiamo crescere in una società sana dove non ci sono diseguaglianze o privilegi, dove cristiani, musulmani e quelli di altre religioni convivono pacificamente aiutandosi gli uni gli altri”.

È seguita poi la lettura da parte di un’associazione culturale di due passaggi di libri, che hanno descritto come il “nemico” a vederlo da vicino è tanto simile a noi e come la differenza sia creata dal non conoscere e dal non comunicare.

Hanno concluso l’incontro i bambini con i loro pensieri e fra tutti rimane impresso il rap composto da Gihad, 10 anni, genitori del Bangladesh e nascita italiana, anzi romana, che ritma:

“La pace è migliore

e la guerra causa solo dolore

la pace bisogna sfruttarla,

mentre la guerra bisogna bandirla

tutti insieme vinceremo

e da soli perderemo.”

Gli avevo chiesto perché portasse quel nome, Gihad, per noi indissolubilmente associato alle tragedie degli ultimi anni e lui mi ha spiegato che significa “impegno massimo nel fare del bene” prima di tutto, prima di quel significato di “guerra santa” che echeggia invece nelle nostre orecchie. – Ah, ecco perché. – Parlarsi, conoscere per capire e per non avere più paura. 

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