È lecito assegnare il trattamento di fine rapporto ai dipendenti pubblici con tempi sempre più lunghi e pure rate: lo ha sancito la Corte Costituzionale con la sentenza 159/2019, stabilendo che non c’è alcuna discriminazione nell’assegnare il Tfr agli statali dopo 24 mesi dall’uscita dal lavoro, se si è optato per la pensione anticipata, e anche a rate, in tutti quei casi, frequenti, in cui l’importo superasse i 50 mila euro. In pratica, per la Consulta si può.
La Corte Costituzionale ha spiegato che non si ravviserebbe “alcuna ingiustificata disparità di trattamento tra dipendenti pubblici e dipendenti privati. La disciplina applicabile ai due settori sarebbe, difatti, eterogenea e, con riguardo al lavoro prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, si apprezzerebbero inderogabili esigenze di equilibrio finanziario, estranee all’àmbito del lavoro privato. Peraltro, i trattamenti di fine servizio dei dipendenti pubblici, quanto a criteri di computo e a modalità di finanziamento, presenterebbero peculiarità tali da renderli incomparabili «rispetto agli omologhi istituti prettamente privatistici”.
“Tutto a posto insomma – commenta con sarcasmo l’Usb -, la Costituzione Italiana consente, secondo la Corte, diversità di trattamento tra lavoratori privati e lavoratori pubblici e la sentenza ne dà una giustificazione che segue un sentiero tracciato da tempo e che è figlio delle modifiche Costituzionali apportate negli ultimi anni in ossequio alle richieste perentorie dell’Unione Europea”.
Secondo il sindacato di base, la sentenza sostiene che “il lavoro pubblico e il lavoro privato non possono essere considerati alla stessa stregua poiché il settore pubblico è una voce di bilancio e pertanto ne va controllata la spesa affinché questa rimanga all’interno dei parametri definiti attraverso, ad esempio, il pareggio di bilancio. Insomma i diritti costituzionali vengono garantiti se non incidono sulla spesa”.
“Questo ennesimo segnale di sottomissione dei principi costituzionali alle esigenze dell’economia decreta definitivamente la fine dello stato di diritto, quello che – conclude l’Usb – non ammetteva nessuna deroga ai principi ispiratori dei padri costituenti”.
Ricordiamo, comunque, che la tendenza a pagare la pensione fuori dai tempi è stata confermata anche dall’attuale Governo.
L’articolo 23 del DL 4/2019 stabilisce che ai dipendenti pubblici che ricorrono a ‘Quota 100’, il pagamento dell’indennità di fine servizio è “corrisposta al momento in cui il soggetto avrebbe maturato il diritto alla corresponsione stessa” secondo quanto stabilito dall’articolo 24 del decreto legge 201 del 6 dicembre 2011, tenuto conto degli adeguamenti di cui alla speranza di vita. Quindi, tanto per capirci, un docente o Ata che riesca ad anticipare di cinque anni l’uscita dal lavoro, non solo si vedrà decurtato l’assegno pensionistico, ma dovrà attendere il compimento dei 67 anni prima di vedersi assegnare il Tfr.
Anche se poi, tutti i lavoratori che accedono al trattamento pensionistico possono presentare richiesta di finanziamento di una somma fino ad un massimo di 30mila euro, ovvero dell’importo spettante, nel caso in cui il TFS sia di importo inferiore.
Intanto, però, l’ex ministro del lavoro, Elsa Fornero, promotrice della riforma pensionistica, con l’innalzamento dei parametri d’accesso, ha tenuto a dire che “ci sono paesi in cui la resistenza al cambiamento è più forte che altrove, ma non cambiare può suggerire una sicurezza solamente illusoria. Mentre le riforme sono la risposta di una politica che dovrebbe guardare lontano e anticipare i cambiamenti strutturali”.
Secondo la Fornero, da qualche tempo in pensione, le riforme della scuola e del mercato del lavoro sono necessarie per “eliminare privilegi, redistribuire ricchezza e aumentare le opportunità occupazionali”.
Oggi, ha concluso l’ex ministro, occorre raggiungere “un difficilissimo equilibrio tra flessibilità e protezione dello status quo”, ma “bisogna provarci con onestà e competenza”.
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