Forse esiste una soluzione radicale per abbattere una volta per tutte la diatriba infinita sulla volontà dello Stato di sottrarre circa il 2% dallo stipendio per destinarlo alla formazione del Trattamento di fine rapporto: lasciare tutti i soldi, assieme a quelli accantonati dal “datore di lavoro”, direttamente in busta paga. La proposta, che non è nuova, è stata rilanciate nelle ultime ore dal ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera: commentando su Facebook un articolo di Ernesto Galli della Loggia, il ministro uscente (lo stesso che negli ultimi giorni ha preso le distanze dall’entrata diretta in campo politico, non più da tecnico, dell’attuale capo del governo Mario Monti) è dichiarato che per favorire la crescita e risollevare il mercato occorre eliminare o corregere alcune tasse. Come "l`Irap, per i suoi effetti perversi che penalizzano chi crea occupazione".
Passera ha poi detto che è prioritario "fare in modo che all`interno del budget europeo la componente di spesa per investimenti in infrastrutture, innovazione e coesione sia aumentata e non diminuita come molti paesi del Nord dell`Europa vorrebbero". Per il ministro va "poi razionalizzata la selva di detrazioni concentrandole su figli a carico, spese per istruzione e formazione, assistenza socio-sanitaria". Mentre "sul fronte del lavoro bisogna rendere il contratto di apprendistato più facilmente utilizzabile e appetibile: durata di 4 anziché 3 anni, periodo di prova esteso a 12 mesi, limiti di età più elevati, valorizzazione del training on the job. Rivalutare anche i contratti di inserimento/reinserimento".
A proposito del tanto discusso Trattamento di fine rapporto, Passera ha detto che "bisogna rendere disponibile il Tfr fino a prevedere di metterlo in busta paga, almeno per chi lo desidera".
Negli mesi, la questione del Tfr è tornata di attualità. Soprattutto dopo che la Corte Costituzione ha confermato che nei confronti di tutti i lavoratori, in virtù del D.P.C.M. del 20.12.1999, a partire dal 1° gennaio 2001, passati dal regime di TFS al regime di TFR, con la nuova aliquota del 6,91% non si sarebbe mai dovuto applicare “il contributo previdenziale obbligatorio nella misura del 2,5 per cento della base retributiva previsto dall’art. 11 della legge 8 marzo 1968 n. 152 e dall’art. 37 del DPR 1032/1973 n. 1032”, come statuito dal comma 2 dello stesso articolo 1 del decreto. Lo Stato, ha spiegato la Consulta, non può in pratica versare un Tfr inferiore a quello di un’azienda privata. “E poiché sempre lo Stato ha trattenuto dalla busta paga indebitamente questi soldi negli ultimi dieci anni, è tenuto ora a restituirli”, ha tuonato l’Anief.
Secondo Marcello Pacifico, presidente Anief e delegato alla gestione del contenzioso nella Confedir, la partita finanziaria potenziale è altissima: “ogni dipendente, di ruolo o precario, potrà infatti rivendicare la restituzione di circa 500 euro annui, per un importo totale medio individuale vicino attorno ai 5mila euro. Considerando che il personale potenzialmente coinvolto, come possibili beneficiari, è composto da almeno mezzo milione di dipendenti pubblici, la somma che lo Stato potrebbe ritrovarsi a dover indennizzare non è molto lontana dai 2 miliardi e mezzo di euro”, ha concluso Pacifico. Il primo passo, prima di intraprendere la via giudiziaria, riguarda l’invio di una nuova diffida che il sindacato mette a disposizione gratuitamente per i soci del sindacato confederale assunti dopo il 2001 o precari in regime di Tfr.
Pochi giorni fa sulla questione è intervenuta anche la Presidenza del Consiglio dei Ministri: attraverso una nota web, ha fatto sapere che non è cambiato nulla. Rimane quindi sempre valido l’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, in Legge 122 del 2010, e che pertanto lo stesso organismo "non ha competenza ad operare la restituzione degli importi operata in base alla predetta norma che è stata successivamente dichiarata incostituzionale dalla Corte".
Replica immediata dell’Anief. “È una spiegazione davvero inadeguata: come fa la Presidenza del Consiglio dei Ministri a dichiararsi incompetente dal momento che, il 20 dicembre del 1999, ha emesso un decreto nel quale si stabilisce al regime di trattamento di fine rapporto non si applica il contributo previdenziale obbligatorio nella misura del 2,5 per cento della base retributiva previsto dall’art. 11 della legge 8 marzo 1968, n. 152, e dall’art. 37 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032?”.
A questo punto, la “ricetta” Passera potrebbe mettere tutti d’accordo. Se invece non se ne farà nulla, rimanendo una delle tante buone intenzioni esternate sotto campagna elettorale, la contesa diventerebbe lunghissima. Diventando inevitabilmente materiale da aula di tribunale.