In questo periodo è esplosa sui social la polemica sulle abilitazioni conseguite all’estero, polemica che non poteva non rimbalzare su questa testata, che ne ha dato ampio riscontro.
Da una parte le lamentele dei docenti che hanno/non hanno conseguito l’abilitazione in Italia, dall’altra le rimostranze di coloro che hanno affrontato gli studi in altri Paesi europei.
E’ certamente da sfatare la vulgata secondo la quale i docenti (o gli aspiranti tali) non vogliano prepararsi ed aggiornarsi.
Si assiste, al contrario, ad un’affannosa ricerca della possibilità di conseguire titoli di specializzazione e/o di abilitazione.
Piuttosto che facilitare ed incentivare la formazione iniziale dei docenti e degli aspiranti tali, il Ministero vara col contagocce i corsi necessari.
Di fronte a tale carenza di offerta formativa, sono sempre di più i giovani laureati costretti ad andare all’estero per conseguire la sospirata abilitazione.
Il diritto di libera circolazione all’interno dell’Unione Europea e la correlata libertà di stabilirsi in un qualunque Paese dell’Unione non può non prevedere il riconoscimento reciproco dei titoli professionali conseguiti nei vari Stati.
A questo proposito è stata emanata la Direttiva 2005/36/CE, recepita con D.Lgs. n. 206/2007 – Attuazione della direttiva 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali, nonche’ della direttiva 2006/100/CE che adegua determinate direttive sulla libera circolazione delle persone a seguito dell’adesione di Bulgaria e Romania.
In virtù di tale disposizione, il titolo rilasciato da uno stato estero è valido anche negli altri Paesi dell’Unione.
Pertanto, un ingegnere francese potrà esercitare la sua professione in Italia, così come un medico italiano potrà curare pazienti in Spagna, in quanto il titolo di studio conseguito è reciprocamente riconosciuto dai vari stati dell’unione europea.
E’ notoche la previsione del numero chiuso per tanti corsi di laurea (valga per tutti il caso di Medicina) ha indotto e induce tantissimi studenti a cercare di conseguire il titolo di studio in altri Stati (es. Spagna), senza che questo abbia mai suscitato particolari polemiche.
Nel caso della scuola, il riconoscimento del titolo non avviene in modo automatico.
E’ innanzi tutto necessario presentare un’apposita istanza al Ministero, che da sempre frappone ostacoli e lungaggini alla dichiarazione di equipollenza del titolo, tanto da costringere gli aspiranti docenti ad impugnare di fronte al Tar il cosiddetto “silenzio-rifiuto”, vale a dire il fatto che il Ministero non risponde alle domande neppure a distanza di mesi.
Tale situazione non poteva che sfociare in un ennesimo contenzioso, che vede da anni il Ministero soccombente.
Negli ultimi tempi, poi, il Giudice Amministrativo, evidentemente spazientito dalle incomprensibili lungaggini del Ministero, aveva cominciato a nominare dei “Commissari ad acta” incaricati di eseguire le sentenze sulle quali l’Amministrazione ometteva di provvedere.
Si è poi giunti alla pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che ha chiarito come il Ministero sia tenuto a procedere alla valutazione delle domande, pur potendo richiedere agli aspiranti ulteriori integrazioni ai fini di giungere ad una totale equipollenza.
Piuttosto che accanirsi in un’ennesima “guerra dei poveri”, occorrerebbe domandarsi se non sia più utile ed opportuno attivare i corsi in Italia, soprattutto per quei settori- come il sostegno-, per i quali si verifica un’evidente carenza di docenti forniti del titolo di specializzazione, tanto che le supplenze vengono in larghissima parte conferite a docenti privi di titolo.
Un Paese che guarda al futuro dovrebbe prevedere l’attivazione di corsi per un numero di docenti adeguato a colmare il gap tra domanda e offerta in questo settore.
Lo stesso dicasi per i vecchi “corsi abilitanti”-attualmente sostituiti dai TFA- che prevedono un numero di posti alquanto limitato rispetto alle richieste, col risultato che quei soldi che i giovani laureati spenderebbero in Italia per le iscrizioni vanno ad altri Paesi dell’Unione Europea che tali corsi promuovono ed organizzano.
D’altra parte, gli Atenei vedrebbero come una manna dal cielo la possibilità di attivare tali corsi, in quanto porterebbero risorse fresche in un settore con una cronica carenza di finanziamenti e personale.
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