Categorie: Personale

Torna la buonuscita nel pubblico impiego

Prendiamo spunto da questa riflessione, per fare il punto della situazione in ordine al passaggio nel pubblico impiego dal regime di Tfs (trattamento di fine servizio) al regime di Tfr (trattamento di fine rapporto) e nello specifico, in ordine alla questione relativa alla trattenuta del 2,50% applicata sulla retribuzione.
Si è infatti esaurita in breve tempo la frenesia che aveva coinvolto migliaia di dipendenti pubblici e la maggior parte di associazioni ed organizzazioni sindacali, dopo la sentenza n. 223 dell’11 ottobre scorso con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della trattenuta del 2,50% operata sull’80% della retribuzione dei pubblici dipendenti.
Ripercorriamo in breve le tappe della vicenda.
Con alcune decisioni della giustizia amministrativa era stata sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni in legge 30 luglio 2010 n. 122, ritenendosi illegittimo il perdurare del prelievo del 2,50% sull’80% della retribuzione (sin qui operato a titolo di rivalsa sull’accantonamento per l’indennità di buonuscita) considerato che, a seguito dell’entrata in vigore dal gennaio 2011 della legge 122/2010, ai lavoratori pubblici era stata estesa la medesima modalità di finanziamento previsto per i lavoratori privati.
In particolare, era stata censurata la norma nella parte in cui disponeva che sulle anzianità contributive a fare tempo dal 1º gennaio 2011, dovesse applicarsi l’aliquota del 6,91%, senza determinare il venire meno della trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50% della base contributiva della buonuscita, operata a titolo di rivalsa sull’accantonamento per l’indennità di buonuscita, in quanto detto regime avrebbe violato gli articoli 3 e 36 della Costituzione, allorché la trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50% della base contributiva della buonuscita, produrrebbe una riduzione dell’accantonamento, illogica anche perché in nessuna misura collegata con la qualità e quantità del lavoro prestato.
Con sentenza n. 223/2012 depositata l’11 ottobre 2012, la Corte Costituzionale aveva accolto le censure sollevate dai giudici amministrativi, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui non escludeva l’applicazione a carico del dipendente della rivalsa pari al 2,50% della base contributiva, prevista dall’art. 37, comma 1, del D.P.R. n. 1032 del 1973.
I giudici di legittimità, in particolare, hanno rilevato che fino al 31 dicembre 2010 la normativa imponeva al datore di lavoro pubblico un accantonamento complessivo del 9,60% sull’80% della retribuzione lorda, con una trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50%, calcolato sempre sull’80% della retribuzione.
La differente normativa pregressa prevedeva, dunque, un accantonamento determinato su una base di computo inferiore e, a fronte di un miglior trattamento di fine rapporto, esigeva la rivalsa sul dipendente.
Nel nuovo assetto dell’istituto determinato dalla norma impugnata, invece, la percentuale di accantonamento opera sull’intera retribuzione, con la conseguenza che il mantenimento della rivalsa sul dipendente, in assenza peraltro della “fascia esente”, determina una diminuzione della retribuzione e, nel contempo, la diminuzione della quantità del Tfr maturata nel tempo.
A parere della Corte Costituzionale, la disposizione censurata, a fronte dell’estensione del regime di cui all’art. 2120 del Codice Civile (ai fini del computo dei trattamenti di fine rapporto) sulle anzianità contributive maturate a fare tempo dal 1º gennaio 2011, determinava quindi – irragionevolmente – l’applicazione dell’aliquota del 6,91% sull’intera retribuzione, senza escludere nel contempo la vigenza della trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50% della base contributiva della buonuscita, operata a titolo di rivalsa sull’accantonamento per l’indennità di buonuscita, in combinato con l’art. 37 del D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032.
La norma è stata quindi ritenuta in contrasto con gli articoli 3 e 36 della Costituzione, in quanto nel consentire allo Stato una riduzione dell’accantonamento, irragionevole perché non collegata con la qualità e quantità del lavoro prestato e perché – a parità di retribuzione – determinava un ingiustificato trattamento deteriore dei dipendenti pubblici rispetto a quelli privati, non sottoposti a rivalsa da parte del datore di lavoro.
L’entusiasmo suscitato dalla pronuncia della Consulta è stato però immediatamente smorzato dal perentorio intervento del Governo.
Nella seduta di Consiglio dei Ministri del 26 ottobre, è stato infatti approvato un decreto legge che mirava a tamponare gli effetti della decisione della Corte Costituzionale, ripristinando la disciplina del trattamento di fine servizio nei riguardi del personale interessato dalla pronuncia.
In particolare, con il decreto legge 29 ottobre 2012 n. 185 recante “Disposizioni urgenti in materia di trattamento di fine servizio dei dipendenti pubblici” – entrato in vigore il 31 ottobre – il Governo, al dichiarato fine di dare attuazione alla sentenza della Corte Costituzionale e di salvaguardare gli obiettivi di finanza pubblica, ha disposto l’abrogazione a decorrere dal 1° gennaio 2011 dell’articolo 12, comma 10, del D.L. 31/5/2010 n. 78, convertito, con modificazioni, dalla L. 30/7/2010 n.122.
Con il predetto decreto, il Governo ha anche disposto che i trattamenti di fine servizio già liquidati in base alla disposizione abrogata, debbano essere riliquidati d’ufficio entro un anno ai sensi della disciplina vigente prima dell’entrata in vigore del citato articolo 12, comma 10; il decreto ha altresì previsto che, in ogni caso, non si provvede al recupero a carico del dipendente delle eventuali somme già erogate in eccedenza.
Considerato che erano stati già avviati numerosi contenziosi finalizzati alla restituzione del contributo previdenziale obbligatorio nella misura del 2,5 per cento della base contributiva utile, il Governo ha precisato nel decreto legge 185/2012, che detti processi pendenti si estinguono di diritto e l’estinzione è dichiarata con decreto, anche d’ufficio; le sentenze eventualmente emesse, fatta eccezione per quelle passate in giudicato, restano prive di effetti.
Ebbene, il decreto legge in questione avrebbe dovuto essere convertito in legge entro 60 giorni dalla sua emanazione e, quindi, entro il 29 dicembre.
Considerate le note vicende che anno interessato il Governo Monti, il decreto legge n. 185/2012 non è però stato convertito in legge e pertanto è decaduto, cessando di avere efficacia.
I tecnici del Governo non hanno però perso di vista la questione, considerato che dalla mancata conversione del decreto legge sarebbero derivati costi non indifferenti per il bilancio dello Stato, costretto al rimborso delle somme trattenute sulle retribuzioni dei pubblici dipendenti, per cui in extremis sono corsi ai ripari.
A decorrere dal 29 dicembre 2012, le disposizioni del decreto legge n. 185/2012 infatti sono state recepite dall’art. 1, commi da 98 a 100, della L. 24 dicembre 2012, n. 228 (c.d. legge di stabilità).
I commi 98 e 99 dell’art.1 della L. n. 228/2012 hanno infatti integralmente riportato il medesimo testo dell’art.1 del D.L. n. 185/2012, mentre il comma 100 ha puntualizzato che “Restano validi gli atti e i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi ed i rapporti giuridici sorti sulla base delle norme del decreto-legge 29 ottobre 2012, n. 185”.
In buona sostanza il Governo si è salvato in calcio d’angolo, reiterando le disposizioni introdotte con il decreto legge 185 non convertito in legge, con la conseguenza che torna la vecchia buonuscita per i dipendenti pubblici, mantenendo efficacia il regime normativo precedente al decreto legge n. 78/2010.
Dino Caudullo

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