In epoca di un male interpretato “reddito di cittadinanza”, non sarebbe male ritornare ad uno dei fondamentali della convivenza sociale, cioè il diritto-dovere al lavoro. Dunque, al lavoro come modalità essenziale, anche se non unica, della dignità della vita non solo personale.
Dovremmo, per capire ciò che intendo dire, uscire da qualsiasi logica assistenziale fine a se stessa, perché anzitutto esiste l’auto-aiuto che il concetto di competenza e di lavoro pretendono: io ti posso/devo aiutare solo se tu sei disposto ad aiutarti.
Per questa finalità, i sindacati stessi anzitutto, e non solo i singoli partiti, dovrebbero uscire da ogni logica corporativa, per puntare al riconoscimento della professionalità come valore fondante il nostro vivere sociale.
E’ arrivato il tempo, credo, di liberarci da tante incrostazioni, presenti nelle varie caste, corporazioni, dei tanti privilegi mascherati come diritti.
Se è il lavoro il cardine operativo che dice il quadro maturo della convivenza sociale, è evidente che dovremmo tutti cambiare registro, anzitutto non considerando più lo Stato come il grande Leviatano dal quale solo difendersi (o da “mungere” all’infinito), perché lo Stato siamo noi tutti, ed in seconda battuta convinti che i cittadini meritano più fiducia di quella che viene solitamente “concessa”: nello scegliere i propri rappresentanti politici, nello stabilire la qualità o meno dei “servizi pubblici” (scuola, sanità, trasporti, ecc.), nel decidere “dal basso”, secondo una logica “sussidiaria”, tutto ciò che è vicino al proprio vissuto quotidiano. Vicinanza perciò anche sul piano fiscale, senza più logiche vessatorie. In una logica di regole e standard condivisi e di verifiche sul campo. Il vero vulnus del nostro “sistema Paese”.
In questa nuova ottica, dovremmo rileggere assieme i concetti di concorrenza e competizione, non solamente cioè in termini negativi, come noi italiani siamo soliti fare.
Questi concetti hanno anzitutto un sapore positivo, perchè il confronto produce relazioni, ed è sempre positivo imparare dai più bravi, per migliorarsi e corrispondere alle sempre nuove esigenze ed attese di tutti.
Se le ideologie totalitarie, che hanno reso il Novecento “secolo buio”, hanno azzerato la “società civile” perché solo lo Stato sa il bene dei propri cittadini, in una “società aperta” come la nostra i cittadini sono meno sciocchi di quel che si pensa, perché hanno tante possibilità di informarsi e possono decidere, in una cornice di poche norme e chiare (e nella “certezza del diritto”, quindi anche della pena), le priorità del vivere sociale e personale.
La storia italiana come noi l’abbiamo conosciuta è stata invece la storia di una nazione “bloccata”, dai mille conflitti di interesse, dai mille recinti corporativi.
Perché, seguendo le polemiche di questi giorni, gran parte del Paese ha paura della “autonomia”? Perché ha paura delle responsabilità, e pensa sempre di scaricare i propri limiti sullo Stato-Leviatano. Poi, è ovvio, in un Paese maturo le forme di compensazione di solidarietà devono essere sempre tenute presenti.
Ogni cittadino, dal basso, deve essere e sentirsi “arbitro” delle proprie sorti e delle sorti del proprio Paese, vera àncora di salvezza in un momento rivoluzionario come quello che stiamo vivendo.
Con una globalizzazione che ha già ridisegnato i rapporti sociali ed istituzionali: nazionali, europei e mondiali. Antidoto ad ogni forma di statalismo dunque, cioè ad ogni resistenza corporativa, ma anche alle varie forme di narcisismo individualistico, per il recupero della socialità primaria, rappresentata da quei “corpi intermedi”, cioè anzitutto dai Comuni e dagli enti locali e dalle libere organizzazioni sociali.
Non si corre il rischio, questa la maggiore obiezione, di lasciare ai potentati locali la gestione dei rapporti non solo istituzionali? Non e’ un rischio lontano, ma già oggi evidente, solo che assegnare agli stessi cittadini la verifica e la scelta dei propri “servizi pubblici” (su standard nazionali, lo ripeto, e con verifiche “terze”) aiuterà tutti a quell’”etica della responsabilità” personale e pubblica che è la risorsa prima di un Paese che non teme il confronto, la trasparenza del proprio operato, la forza positiva del dialogo aperto. Democrazia sostanziale, appunto.
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