Maria Antonietta Ferraloro, insegnante di Lettere e collaboratrice del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, autrice dei saggi: “Tomasi di Lampedusa e i luoghi del Gattopardo”, “L’Opera-Orologio. Saggi sul Gattopardo” e “Il Gattopardo raccontato a mia figlia” si intrattiene, in questo intervento che ci ha spedito, non solo sul valore e l’importanza della letteratura, ma anche sui modi e le strategie didattiche che i docenti di lettere possono usare per invogliare i ragazzi alla lettura.
L’ultimo report ISTAT su Produzione di lettura dei libri in Italia -pubblicato appena qualche mese addietro- fotografa in maniera impietosa una tendenza ormai in atto da troppo tempo. Continua a erodersi il numero di persone che dichiara di aver letto almeno un libro, e non per motivi di studio o professionali, nel corso dell’anno precedente. Si passa, infatti, dal 42% al 40,5%. I dati ci confermano anche che le donne leggono più degli uomini; che la fascia d’età più forte è rappresentata dagli adolescenti della scuola dell’obbligo, tra gli 11 e i 14 anni; che il titolo di studio posseduto ha un suo impatto rilevante sulla decisione di sfogliare un libro.
Cifre e algoritmi ribadiscono, inoltre, quanto sia importante l’esempio dei genitori: se loro leggono, leggeranno pure i figli; e che al Sud si legge decisamente meno che nel Nord-est. Ci dicono, soprattutto, che esiste un legame indissolubile tra l’abitudine alla lettura e la partecipazione alla vita culturale. Chi non legge, non va al museo, né al cinema o al teatro. Inoltre, tende a informarsi poco di quel che gli accade attorno.
Sono dati sconsolanti, ma assolutamente prevedibili per chi, di professione, da vari lustri, fa il docente di Lettere. I nostri ragazzi leggono (e scrivono) e molto più che in passato: trascorrono, infatti, gran parte del loro tempo a leggere (e a comporre) messaggi o post. È il trionfo di quella che gli studiosi definiscono una neoepistolarità digitale. Tuttavia la lingua utilizzata all’interno di questa comunicazione non potrebbe essere più sciatta, sgrammaticata e, soprattutto, più povera.
L’universo linguistico delle giovani generazioni può contare su un lessico sempre più ristretto. Negli ultimi decenni, è diminuita drasticamente la quantità di parole a cui possono fare ricorso. Se un liceale del 1976 disponeva di un tesoretto di 1600 vocaboli, oggi, ne possiede poco meno di 500. Di pari passo con questo depauperamento – o ipersemplificazione- lessicale avanza un fenomeno altrettanto preoccupante. Nelle aule, aumentano sempre di più i casi di analfabetismo strumentale e funzionale. Dovremmo preoccuparcene. Quando un allievo non conosce il significato delle parole –di un buon numero di parole-, è naturale che fatichi a decifrare uno scritto, o che gli venga difficile passare dalla decifrazione alla comprensione di un testo.
L’impoverimento lessicale gioca, senza dubbio, un ruolo rilevante nella crescente disaffezione che i nostri ragazzi manifestano nei riguardi dell’oggetto-libro, certo meno seducente di uno schermo digitale, e della pratica del leggere. I veri problemi, però, sono altri. La miseria espressiva è sempre indice di una povertà dei contenuti. E condiziona sempre, in maniera piuttosto pesante, la vita democratica.
Non riesce a comprendere, raccontare e raccontarsi il mondo. Inoltre, si piega, docile e ottuso, alla legge capricciosa del più forte o alla pressioni dei pari. Senza le parole adeguate non potrà esercitare i propri diritti, né saprà mai far fronte ai propri doveri. L’uomo del terzo millennio rischia, insomma, di trasformare in un ideale utopico, o forse improponibile, la costruzione di «una società Terra i cui liberi cittadini, uguali per legge e di fatto, condividono lo spazio nel comune interesse.» (M. Augè, Un altro mondo è possibile, 2017, p. 9).
Un mondo che rifiuta il faticoso, ma vitale viaggio del leggere è destinato ad arenarsi come una grande balena spiaggiata. «L’avventura della lettura ha la forma di un accesso, di una presa di contatto, di un’esperienza mentale […] ce ne serviamo per provare altri modi di rispondere alla vita, o per cambiare vita.» (M.Macé, La letteratura nella vita, 2016, p. 9). Non possiamo farne a meno.
Purtroppo anche i libri sono entrati nel tritacarne della cultura consumistica. Vengono trattati alla stregua di quei beni deperibili che fanno bella mostra di sé, sugli scaffali degli ipermercati. Basta che il lettore-consumatore se ne dichiari insoddisfatto perché perdano attrattiva ed escano dal ciclo di produzione. Tra i circa 60.000 testi che vedono di solito la luce in Italia un anno solare, vi sono sicuramente dei volumi di cui il lettore può benissimo fare a meno. Ma dal fondo di questo magma indistinto bisogna preoccuparsi di riportare in superfice i testi meritevoli. Entra qui in gioco la mediazione di intellettuali, critici, librai, bibliotecari, ma anche di quei solidi gruppi di lettura consapevole nati sul web: penso, ad esempio, ai billyni di “Modus legendi”, e alla loro rivoluzione gentile.
Soprattutto, occorre premurarsi di recuperare i Classici, quelle opere-mondo capaci di sopravvivere al tempo e di parlare direttamente al cuore d’ogni lettore. Leggere questi libri è necessario: nutrono il pensiero; riscrivono la sintassi dell’esistenza; alimentano un immaginario collettivo. A loro dovremmo affidarci, per orientare i nostri passi e renderli saldi, nella società liquida (Z. Bauman), complessa (E. Morin), planetaria (M. Augé) qual è quella che ci accoglie,.
Non tocca, naturalmente, solo alla scuola far circolare i buoni libri nello spazio vitale dei ragazzi. Tuttavia, tale istituzione, nel rispetto del suo antico mandato, può esercitare un ruolo centrale in questo processo di ri-alfalbetizzazione letteraria e umana.
Non va sottovalutato, infatti, che siamo dinnanzi a un passaggio generazionale diverso da quello consueto (G. Chiosso, I significati dell’educazione, 2009). Dovremmo, inoltre, evitare di lasciarci irretire dalla mitografia digitale imperante e prendere atto che, a livello di apprendimento, l’uso smodato delle nuove tecnologie risulta assolutamente controproducente (A. Scotto di Luzio, Senza educazione. 2015).
In via preliminare, una didattica della lettura (e della Letteratura) che desideri essere efficace dovrebbe accogliere l’invito di «lasciarsi alle spalle tutti i luoghi comuni con cui abbiamo trasformato la lettura in un’attività sana, educativa, virtuosa (G. Marchetta Lettori si cresce, 2015, p. 19). Leggere non deve mai smettere di essere un incendio che divampa, destinato a mutare per sempre il paesaggio del nostro animo.
Probabilmente, vanno proposti ai giovani dei testi che possano essere più vicini al loro mondo e alla loro età. Coinvolgerli in letture ad alta voce. Invitarli alla riscrittura di brani o dell’intera opera: o anche a una traduzione in altri linguaggi: penso alle graphic novel; ai booktrailers. L’obiettivo primario è quello di suscitare la curiosità dei nostri allievi. Solo dopo sarà possibile educarli, in maniera graduale, al valore della letterarietà, fargli cioè apprezzare la potenza figurale ed estetica della Letteratura. È superfluo ricordare che ogni scuola dovrebbe dotarsi una propria biblioteca.
Forse, però, per riconciliare i ragazzi «con la luminosa solitudine della lettura» (Pennac, Una lezione d’ignoranza, 2015 p. 12 ), potrebbe risultare opportuno che noi prof tornassimo a essere degli intellettuali: recuperassimo la nostra funzione di mediatori di senso; di facilitatori ( o agitatori) culturali. Al contempo, la scuola dovrebbe ritrovare la sua antica vocazione di bottega d’artigiano. Proporsi ai ragazzi come uno spazio protetto di esplorazione e sperimentazione. Un porto franco, libero da finalità utilitaristiche e da ansie da prestazione. Un luogo, insomma, dove tornino a circolare in libertà parole, pensieri e idee.
Maria Antonietta Ferraloro
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