Davvero interessante (e preoccupante) la conferenza stampa del Ministro della Pubblica Istruzione (e del merito) relativa alla relazione annuale davanti al Parlamento incentrata sul fenomeno delle tossicodipendenze.
I numeri sono allarmanti soprattutto se si considera l’elevata percentuale di ragazzi dipendenti da psicofarmaci. Un senso di depressione sembra dominare e annichilire gli animi di moltissimi adolescenti (280.00, almeno quelli accertati) svuotandoli di ogni energia e lasciandoli lì, come corpi inerti, desiderosi soltanto di un ‘farmaco dell’oblio’ che li possa allontanare (per quanto?) da un incancrenito male di vivere.
Da qui una serie di considerazioni. La necessità di una didattica nuova (l’insegnamento attrattivo) che possa aiutare i giovani ad evitare stati depressivi o a uscire fuori da paure e continui stati d’ansia, il valore della cultura e della regola, il coinvolgimento e l’ascolto costante delle famiglie, l’attenzione continua ad evitare un uso (abuso) eccessivo e devastante dei cellulari e social-media, l’urgenza di una presenza importante dell’educazione civica, soprattutto su alcuni temi delicati e, infine, l’imprescindibilità di una forte componente di psicologi nel sistema scolastico (presidi psicologici negli Uffici scolastici).
Certo le problematiche sono evidenti. Il disagio e la depressione giovanile è sotto gli occhi di tutti e tali ‘sofferenze’ sembrano essere più pericolose oggi che in passato (sarà poi vero?).
Gli esperti cercano, con grande competenza e forza di volontà, di chiarirne le origini e costruiscono varie ipotesi (più o meno affidabili) sull’origine di queste crisi giovanili, nella speranza di individuarne con precisione le cause e su di esse intervenire prontamente.
Ma disagio e depressione, nell’ambito scolastico, non sono un ‘morbo’ che attacca solo i giovani.
Demotivazione, sfiducia, distacco, demoralizzazione prendono e angustiano anche molti docenti, pregiudicandone la qualità del lavoro.
Perché una scuola funzioni è essenziale garantire la tranquillità e il benessere degli allievi, ma prima ancora dei docenti. Questo non sempre accade.
Vi è una difficoltà evidente, spesso, nei docenti nel riuscire solo a stare in classe (almeno in certe classi), sia per il comportamento dispersivo e oltremodo immaturo dei discenti, sia per il precipitare delle capacità attentive dei ragazzi, sempre più contenute, se non inesistenti. Certo tutto questo non gratifica un docente che s’impegna al massimo e lotta come un gladiatore per ottenere qualcosa dalla classe, per riuscire a dare agli allievi un minimo di formazione, insomma per farli crescere.
Altre sono però le motivazioni che possono avvilire il docente: gli episodi di violenza contro di loro da parte di alunni o degli stessi genitori (una legge è stata da poco approvata contro questi atti delinquenziali. Servirà?), il vittimismo spesso recitato e ‘costruito’ da parte dei ragazzi e delle loro famiglie (quasi complici dei figli), la superbia e la presunzione di madri e padri, talmente dissennati (e poco educati) da voler imporre al docente il ‘modus operandi’, i voti e i giudizi, l’intervento della giustizia amministrativa, sempre più interpellata dalle famiglie, pronta (pur senza averne le competenze e le capacità) a rovesciare voti e giudizi dei docenti (e in tal modo li squalifica e li declassa) appoggiandosi non sul merito, ma sul metodo o su qualche presunto vizio di forma, le pressioni (chiare o velate) scoraggianti e sconfortanti, benché sostanzialmente legittime, di alcuni Dirigenti scolastici, l’invasione inarrestabile di nuovi e discutibili (per non dire inefficaci) metodi di insegnamento, desiderati e voluti, forse, dai giovani docenti, ma difficili da accettare e praticare (considerando anche la loro proliferazione e i risultati non certo eccezionali) per i professori più ‘vecchi’ (metodi troppo ‘pratici’ che finiscono per indebolire la funzione principale della scuola, cioè fornire agli studenti gli strumenti per la conoscenza di se stessi e del mondo in ci vivono), l’uso eccessivo di tecnologie (imposto dall’alto), la sovrabbondanza (nonostante tutto) di burocrazia, che ostacola e rende faticoso e debole lo sforzo didattico dei professori, e, infine, le eccessive e a volte controproducenti tutele date ai ragazzi (che sia questa iper-protezione a creare ragazzi disadattati? Qualcuno parla di isolamento da ‘sostegno’, altro che inclusione!).
Per completare l’avvilente quadro, potremmo poi aggiungere le mortificazioni economiche, secondo quanto pubblicato lo scorso dicembre dal ‘Censis’(nel suo rapporto annuale): “per quanto riguarda gli stipendi dei docenti europei, l’Italia si trova al penultimo posto, davanti solo all’Ungheria”. Anche se – occorre dirlo – su questo aspetto molti docenti italiani non sembrano (misteri d’Italia da analizzare e su cui indagare), secondo il Censis, molto disperati.
In compenso molte sono le prese di posizione, da parte di alcuni settori della società (solo alcuni però), a favore dei docenti e le parole di stima si sprecano. In più non mancano continue promesse di elevate gratificazioni economiche e di altri benefici e agevolazioni. Per ora solo promesse.
Ma il problema non è questo. La realtà è che un sentimento di scetticismo si aggira per le scuole, tanti vorrebbero ‘scappare’, ma oggi andare in pensione è quasi un’impresa.
La verità è che il burnout sta spegnendo molti insegnanti. Se ciò accadesse veramente gravi sarebbero le conseguenze per l’intera società.
Allora, per evitare il peggio, occorre monitorare e curare il disagio sia degli alunni che dei docenti.
Con quale priorità?
Certo è che le due ‘crisi’ sono legate. Non si può porre attenzione ad una e tralasciare l’altra.
Non si otterrebbero buoni risultati. Solo se si interviene contemporaneamente su queste due ‘debolezze’, ci saranno serie possibilità di guarigione per tutta la scuola.
Andrea Ceriani
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